All’interno del cartellone spicca il progetto speciale “OA – cinque atti teatrali sull’opera d’arte”, dove si sperimenta una messa in scena inedita “non più fondata su una drammaturgia letteraria ma scaturita dal confronto con l’opera d’arte che diviene azione teatrale”. Ospiti dell’iniziativa gli artisti Alfredo Pirri, Enrico Castellani, Jannis Kounellis, Loris Cecchini e Cristina Volpi.
Il terzo atto, “Il canto”, al quale abbiamo assistito sabato scorso, ha come protagonista Jannis Kounellis con un’installazione inedita, ideata per l’evento.
Al nostro ingresso, la sala del teatro nuda e spoglia, nell’evidenza di tutte le macchinerie sceniche, offre lo scenario desolato e inquietante dell’installazione dell’artista greco, nella triade concettuale di “morte, vita e gioco” espressa da tre giganteschi sacchi composti con teloni di tir appesi al soffitto, un cavallo e colorate palle da biliardo sparse al centro della scena. Le sacche incombono sulla scena come corpi impiccati, lasciando indovinare al loro interno le forme geometriche e spigolose di mobili e oggetti dismessi.
Il cavallo, con la sua dirompente verità animale, all’interno delle nere pareti del teatro, viene “forzato” alla stasi da una figura seminascosta nella penombra, e obbliga l’inconsapevole bestia alla volontà di una briglia, simbolo di un’umanità soggiogante. Ma l’animale esprime tutta la sua istintività con il suo continuo muoversi e defecare. Lo sterco lo circonda, viene calpestato dai suoi zoccoli e effonde un odore forte, consolatorio nell’evocare una vita che, nonostante tutto, sembra avere la meglio su quella briglia così violenta.
In primo piano si offrono innumerevoli palle da biliardo lucide e colorate, imperturbabili e immobili in un gioco di stasi che rimanda a un concetto di gioco del quale siamo mere pedine, in attesa di essere mandate in buca, una buca oscura e buia verso la quale, prima o poi, tutti saremo condotti.
L’artista “entra nel teatro come portatore di visione”, afferma Kounellis, e a partire da questa visione Giancarlo Cauteruccio costruisce una drammaturgia del canto, affidata a sette cantanti liriche che interpretano un ampio repertorio di musica classica contemporanea (John Cage, Sylvano Bussotti e Ivan Fedele) e brani di musica antica che anima le figure e gli oggetti presenti in scena. Drammaturgia del canto alla quale si aggiunge una drammaturgia della parola, nel perpetuo conflitto tra il caos della materia e l’ordine cui aspira l’uomo, con estratti da Sofocle, Euripide e Thomas Eliot. Una parola dialettale – si badi bene -, con un Cauteruccio-Tiresia che si esprime in un accento calabrese arcaico e ancestrale, nei suoi suoni taglienti e netti, gridi di sofferenza dell’umanità intera, di ogni tempo e di ogni dove.
Ma i tre enormi sacchi sono anche tre sacche fetali, ancestrali nella loro lontanissima derivazione temporale, attorno alle quali popolano la scena figure femminili perdute, angosciate e angoscianti, in una linea di luci, che inizialmente le investe in pieno, poi viene sezionata dal graticcio: una luce lontana, impedita, ostacolata.
Le protagoniste lentamente conducono il canto all’estremo, trasmutandolo in suoni, versi gutturali, rumori di denti che sbattono, echi di anime dannate, condannate a vagare in eterno in questo limbo oscuro, desiderose di dimenticare ed essere dimenticate, di cancellare per sempre una possibilità di conoscenza ineluttabile. Ma i tre sacchi permangono muti e immoti, trionfanti, a testimoniare ed evocare l’inenarrabile ferocia insita nell’essere umano. È la voce di Giancarlo Cauteruccio, seduto al lato sinistro della scena a chiudere l’atto, con poche parole che risuonano feroci e amare: “Che cosa terribile è sapere!”. E la cecità di Tiresia, anziché limite, diviene amplificazione estrema e a nulla servono gli occhiali scuri indossati dalle protagoniste nella parte finale, perché per quanto l’essere umano tenti, aneli a dimenticare tutto, ogni benché minimo espediente nel tempo si rivela inutile.
Cauteruccio è bravo a comporre una partitura gestuale e sonora che non contrasta né mette in secondo piano l’opera dell’artista greco, ma ne diviene complemento. Sottolinea, indica, suggerisce senza mai essere di troppo, e in tutto questo crea un’amplificazione in scena delle innumerevoli evocazioni provocate dall’installazione, in una messa in scena equilibrata e asciutta, aiutata dalla bravura delle interpreti e dal perfetto gioco di luci di Loris Giancola, che merita di essere sottolineato per efficacia e sensibilità al messaggio insito nell’intera opera.
Le figure femminili protagoniste, quasi vestali del dolore, richiamano alla mente i terribili abitanti della Città degli immortali, menzionati nel racconto “L’immortale” che apre la raccolta “L’Aleph” di Jorge Luis Borges, che si trascinano sotto il sole rovente e si nutrono di carne di serpente; ma anche, al contempo, l’umanità che popola le atmosfere del romanzo “La strada” di Cormac McCarthy, dove un padre e un figlio percorrono gli ultimi giorni di un pianeta sopravvissuto temporaneamente a un’apocalisse nucleare, e dove si erra ben consci di quello che è stato e di quello che potrà essere, testimoni di una ferocia sperimentata e ancora da sperimentare.
OA – cinque atti teatrali sull’opera d’arte
Terzo atto – IL CANTO
con un’opera site specific di Jannis KOUNELLIS
ideazione e regia: Giancarlo Cauteruccio
con Giancarlo Cauteruccio
e con i soprani Monica Benvenuti e Deborah Carcasci, Hitomi Ohki, Elisa Prosperi,
Maria Elena Romanazzi, Donatella Romei, Lucia Sartori
costumi Massimo Bevilacqua
direzione di allestimento e luci Loris Giancola
consulenza al progetto Pietro Gaglianò
durata: 36′
applaus del pubblicoi: 4′ 5”
Visto a Scandicci (FI), Teatro Studio, il 24 marzo 2012