Non è facile mettere in scena “Il castello” di Kafka: il testo è denso, corposo; la storia è ambientata in un luogo immaginario appesantito dalla nebbia e dalla neve.
Il geometra K. giunge in un piccolo villaggio per lavorare al castello; ha con sé una lettera, a riprova di esser stato convocato, tuttavia al suo arrivo scopre che nessun geometra è stato “realmente” chiamato. Per la gente del villaggio K. è uno straniero da cacciare il prima possibile. Così si ritrova solo, non sa dove dormire e tantomeno comprende “la verità”. Il castello è come un mostro affamato che stritola nell’indifferenza generale. Ha un apparato centrale efficiente che muove, come fili di marionette, le vite dei suoi paesani: ingranaggi da cui sono totalmente esclusi i sentimenti.
Il linguaggio del testo è burocratizzato fino alla claustrofobia, tanto che si ricorre continuamente a parole come “autorizzazione”, “servizio”, “apparato”, “sovraintendente”. Non c’è posto per umanità, calore o amore; e anche questo sentimento, se presente, è solo impulso calcolato: K. si innamora di Frieda in quanto amante di Klamm, l’uomo che incarna il potere, e Frieda di K. perché spera in un destino diverso. Le esistenze di tutti appaiono passivamente legate a ordini emessi dal castello, entità fantasma a cui però bisogna sempre rendere conto.
Il lavoro dei due registi svizzeri Geneviève Pasquier e Nicolas Rossier, creatori di una produzione all’anno e per il resto del tempo impegnati come attori in diversi spettacoli e film, non è dunque affatto semplice, perché occorre alleggerire. L’assunto da cui partono è che Kafka, scrittore dell’angoscia, quando leggeva i suoi testi agli amici provocava grasse risate. E allora “Il castello” diventa pièce in cui si ride, anche se amaramente.
I registi scelgono di rappresentare K. con due attori, che di volta in volta sono K. e voce narrante, un doppio in contrapposizione all’altro doppio presente in scena: gli aiutanti. La scelta è felice, in quanto lo sdoppiamento dona ritmo e movimento; tuttavia entrambi gli attori mostrano di essere perfetti nel raccontare i fatti, ma opachi e spenti nel ruolo di K.
Piace invece sia la scena iniziale della telefonata, comica quanto angosciante, che la scena a casa del sovrintendente, con una Mizzi davvero piacevolissima; convince meno la scelta di far diventare una macchietta i due aiutanti pasticcioni e il messaggero: se talvolta estremizzare serve per smorzare un’atmosfera inquietante, altre volte questa comicità appare forzata, solo caricaturale.
Lo spettacolo scorre comunque piacevolemente per tutte le quasi due ore della sua durata; ha un bell’andamento, gli attori in scena interpretano più personaggi e questo rende la pièce rapida, veloce, a tratti anche felicemente spiritosa. Curati i costumi, eccellenti le luci e le scenografie, l’adattamento è fedele al testo e la riduzione coerente e opportuna. Eppure lo spettacolo, alla fine, pare monco: la velocità, l’intensità di alcune scene non bastano a dare forza alle parole. L’inespressività di alcuni personaggi (K. ma anche la stessa Frieda) restringono quell’aura di mistero e di profondità che il testo kafkiano ha. Sembra che il mostro sia stato solo rappresentato. Il pubblico applaude ma non in maniera convinta.
di Franz Kafka
adattamento e regia: Geneviève Pasquier e Nicolas Rossier
con: Melanie Olivia Bauer, Céline Cesa, Georges Grbic, Shin Iglésias, Yves Jenny, Fred Mudry, Geneviève Pasquier, Lola Riccaboni, Nicolas Rossier, Christian Scheidt, Pierre Spuhler, Diego Todeschini
scenografie: Yangalie Besson
creazione sonora Christophe Bollondi
luci: Christophe Pitoiset costumi Anna Van Brée e Olivier Falconnier
prodotto da: Compagnia Pasquier-Rossier, Teatro Saint-Gervais Ginevra, Teatro Arsenic Losanna, Nuithonie Friburgo
durata: 1 h 45’
applausi del pubblico: 2’ 30’’Visto a Ginevra, Theatre Saint-Gervais, il 15 novembre 2009