Il cielo su Torino. Per un Sistema che aiuti davvero chi merita

Aurélia Dedieu in S.O.S – Storia di un’Odissea Psicosomatica|Elena Serra e Chiara Cardea (photo: Luigi Ceccon)
Aurélia Dedieu in S.O.S – Storia di un’Odissea Psicosomatica|Elena Serra e Chiara Cardea (photo: Luigi Ceccon)

Torniamo anche quest’anno alla rassegna Il cielo su Torino, realizzata per la terza edizione dallo Stabile in collaborazione con (l’ormai fu) Sistema Teatro Torino, realtà di cui parleremo alla fine.
Il progetto, da bando, intende sostenere e dare visibilità alle giovani compagnie più meritevoli del territorio (“attento ai linguaggi del contemporaneo nonché al ricambio generazionale, è dedicato alle compagnie teatrali operanti sul territorio piemontese con un livello artistico professionale, e si propone di offrire un’adeguata visibilità ai debutti delle loro produzioni”).

Cinque gli spettacoli selezionati per questa edizione e ospitati al Teatro Gobetti dal 3 al 15 gennaio.
Cinque debutti per altrettanti spunti di riflessione.
Ci spiace non essere riusciti a seguire in apertura il nuovo lavoro di Silvia Battaglio “Orlando. Le primavere”, liberamente ispirato all’Orlando di Virginia Woolf, e interpretato dalla stessa Battaglio insieme a Lorenzo Paladini.

Partiamo quindi dal 6 gennaio. L’epifania è tutto sommato un buon momento per andare a teatro.
“S.O.S. Storia di un’odissea psicosomatica” è firmato dalla Compagnia Makiro: Aurélia Dedieu in scena e Giuseppe Vetti, allievo di Jango Edwards, alla regia.

Chissà se qualcuno si ricorda di “Viaggio allucinante” (“Fantastic Voyage”), film del 1966 diretto da Richard Fleischer?
A me, che sono preistorica, è tornato in mente perché “S.O.S. Storia di un’odissea psicosomatica” è proprio un viaggio nel nostro corpo. Un’avventura alla scoperta di ciò che spesso dimentichiamo, o di cui ci ricordiamo solo per gravi ed evidenti segnali: il nostro fegato, l’intestino, il cuore o il cervello.
Lo spettacolo è una via crucis tragicomica alla ricerca di sé stessi o, forse meglio, alla ricerca di un’armonia tra il nostro corpo e la nostra “anima”, entrambi messi a dura prova da questi tempi moderni.

Ho riso. Tanto. E solo per questo sono già 1000 punti. Perché far ridere in modo intelligente è impresa difficile.
Aurélia Dedieu ha dalla sua una naturalezza che azzera le distanze con il pubblico. Ci accoglie in proscenio. Si assicura che siamo comodi, ci avverte che possiamo ancora andare alla toilette. E ci chiede come stiamo indagando sul nostro stato di salute, sui nostri disturbi nascosti. Lo fa priva di quel tentativo di ammaliarci a tradimento, senza darci la sensazione, spesso sgradevole, di volerci tirare dalla sua restando ben lontana da noi.
Lo spettacolo propone quadri divertenti che insieme lasciano quel giusto amaro in bocca: dovremo dare più ascolto a questa meravigliosa macchina che ci accompagnerà per tutta l’esistenza.
Il lavoro ha alcune cose che si potrebbero sicuramente affinare: qualcosa da limare, un finale ancora da perfezionare. Ma sicuramente si parte da un ottimo materiale.

Il 9 gennaio è la volta dell’“Elettra” di Hugo von Hofmannsthal, con Elena Aimone, Anna Charlotte Barbera, Lorenzo Bartoli, Elio D’Alessandro, Raffaele Musella, Giulia Rupi, Eleonora Tata, Francesca Turrini, Valentina Virando per un progetto firmato da Giuliano Scarpinato. Praticamente quasi un intero cast, regista compreso, uscito dalla Scuola dello Stabile di Torino.

L’Elettra di Von Hofmannsthal è una tragedia in atto unico del 1903 dedicata a Elenora Duse (che però non la interpretò mai), ispirata all’Elettra di Sofocle. A differenze di Eschilo, che della tragedia mette in luce la figura di Oreste, Sofocle sposta l’attenzione su Elettra, e quindi sulla sua selvaggia e folle determinazione di vendicare la morte del padre Agamennone, avvenuta per mano della madre Clittenestra e dell’amante Egisto. Una vendetta che si consumerà attraverso il fratello Oreste, tornato a casa dopo anni di assenza, incitato e spinto dalla sorella.

Sul palco del Gobetti un residuo di casa che “casa non è più”, in cui madre e figlia falliscono l’ultimo ed estremo tentativo di riconciliazione. Qui si svolge l’intera vicenda, incentrata sulla figura sanguigna di un’Elettra che vaga, cagna rabbiosa, nella casa materna. Un lungo tavolo da pranzo è l’unico oggetto attorno al quale i protagonisti si urlano parole di odio alternate a richieste di tregua.

Nonostante l’interpretazione forte e convicente della Clittenestra di Elena Aimone la sensazione è che ci si potesse aspettare qualcosa di più. A partire da un maggiore coraggio nella rilettura del testo. Le parole di Hofmannsthal in scena disattendono un po’ il foglio di sala, dove si sottolinea la volontà “di cucire addosso agli attori dei corpi che siano vibranti e dentro cui le parole risuonino non vuote, non vecchie”.
Invece sembra di ritrovarsi davanti al “classico”. Si assiste a una storia, ma non se ne viene particolarmente colpiti, perché poco o nulla trova una collocazione – che in realtà avrebbe potuto esserci – nel nostro tempo. Non si parla qui di una ricerca spasmodica di elementi “pop”, né di quella modernità fatta di video (che pure ci sono) o di allestimento, semmai di dar nuova vita a un testo che altrimenti potrebbe anche rimanere serenamente chiuso in un cassetto. Non bastano il tentativo di ‘fisicizzare’ i personaggi o il lavoro sull’eros a rendere davvero questa Elettra ancora viva. Si sente la necessità di un ulteriore scarto.

“Variazioni sulla libellula – allegro ma non troppo” vede Roberta Lanave e Camilla Sandri, anche loro diplomate alla Scuola dello Stabile nel 2012, portare in scena i bellissimi testi di Amelia Rosselli, poetessa figlia dell’antifascista Carlo Rosselli, morta suicida nel 1996. Sono tre variazioni tratte da “Storia di una malattia”, “La libellula – panegirico della libertà” e “Prove di volo”.

La complessità della personalità di Amelia Rosselli, il severo ardore politico, il misticismo coltivato nella solitudine, le manie di persecuzione, il martirio intellettuale e i bagliori d’autoironia sono sviscerati in scena da un gioco di corpi e voci molteplici, che le due attrici si rimandano l’un l’altra all’interno di un ritmo recitativo serrato, ben sostenuto.
Camilla Sandri si fa voce roca e scandita del rigore che Amelia Rosselli s’impose come intellettuale militante, e restituisce con una precisissima mimica ciò che Roberta Lanave invece stravolge per ossimoro nel dar voce alla bramosìa libertaria della stessa poetessa: l’ideale e la carne.

Un gioco di opposti, enfatizzato sui poli maschile e femminile anche attraverso le scelte costumistiche (pantaloni e camicia per la Sandri, un morbido abito bianco per Lanave), costruito all’interno di una regia semplice ma puntuale.
Così, l’intimità quotidiana di un caffè, bevuto a diluire gli ossessivi pensieri della Rosselli narrati nel monologo iniziale (le voci, la C.i.a, le spie) si pone in contrasto con la simbologia religiosa di un secchio d’acqua battesimale all’interno del quale Roberta Lanave s’immerge sulle parole di “La Libellula”. Il concreto di una vita condotta nell’austerità di un appartamento spoglio s’infrange con l’immaginario più alto della poetessa: le sue fughe d’“ape che ronza per un punto fermo, cercando Lui, quella giungla d’alberi in ferro battuto”.
Lanave e Sandri si confrontano con testi difficili per la loro straordinaria intensità, ma “Variazioni sulla Libellula”, delicato ed ipnotico, è un lavoro genuinamente sentito, che sa scendere in profondità, scavare oltre le parole della Rosselli per restituirne sulla scena, in modo autentico, la fragilità.

Arriviamo all’ultimo spettacolo della rassegna.
La sala è piena per “Edith” progetto di e con Chiara Cardea ed Elena Serra, con Davide Barbato assistente alla regia.
Parliamo stavolta di un progetto più ampio rispetto al solo spettacolo, a cui le due attrici in scena, accompagnate da collaboratori e sostenitori, lavorano da circa due anni. E che ha visto in Torino, da novembre 2016, una serie di appuntamenti tra il Circolo dei Lettori, la Lumeria e Casa Arcobaleno.
I risultati, quando si lavora tanto e bene, per fortuna arrivano.

Negli anni ’70 Lee Radwill, sorella di Jacqueline Kennedy, commissiona ai fratelli cineasti Albert e David Mayles un documentario sulla vita della sua famiglia. In quell’occasione i due registi conoscono Edith Ewing Bouvier Beale e sua figlia Edith Bouvier Beale (“Big Edie” e “Little Edie”), rispettivamente zia e cugina di Jacqueline Kennedy, esiliate – dopo la vita mondana a New York degli anni ‘50 – nella loro villa ormai fatiscente a East Hampton.
Decaduta poi la commessa, i Mayles decidono di continuare in autonomia il progetto, girando nel 1975 quello che è stato definito un capolavoro del direct cinema, “Grey Gardens”, dal nome della casa sull’oceano.

Guardando il documentario si capisce subito perché volerlo trasferire in scena. E’ davvero qualcosa di unico, che valica il concetto di realismo. Edie madre e Edie figlia convivono nella devastazione (sporcizia, spazzatura, zecche e procioni) due vite compromesse da un degrado ormai senza via di uscita, fra tic, nevrosi e alienazione. Una convivenza che si nutre di un rapporto d’amore-odio, di quotidiane recriminazioni, ricordi e accuse reciproche. Un legame che la follia strisciante rende ancora più indissolubile.
Davanti alla camera c’è un mostrarsi nudo, un reality senza finzione alcuna.

Elena Serra, regista di “Edith”, incentra la trasposizione teatrale sul rapporto fra le due donne. Che trascende il ruolo di madre e figlia passando attraverso quello di maestra e allieva, vittima e carnefice. I ruoli sono continuamente rivoltati e l’empatia del pubblico, che forse all’inizio fatica un po’ ad entrare nella vicenda, passa poi ininterrottamente da una donna all’altra.
Al centro della scena la suggestiva ricostruzione della casa in legno di East Hampton, firmata da Jacopo Valsania, gira su sé stessa e viene spostata dalle protagoniste accompagnando, come un mutevole punto di vista, la loro relazione. Una casa che è prigione, ultimo appiglio ma anche una scusa.

“Edith” è un lavoro curato e dalle molteplici sfaccettature. Che sarebbe possibile rivedere più volte per comprenderne ogni volta qualcosa di nuovo: una lettura diversa, una suggestione non colta…
La cura nei dettagli, qualità per nulla scontata oggi, contraddistingue scene, musiche e costumi.
Elena Serra (Big Edie) e Chiara Cardea (Little Edith) dimostrano sul palco il loro lavoro minuzioso sul testo e su ogni movimento, per un debutto sudato, come dovrebbe sempre essere. Si esce così da teatro con la curiosità di saperne di più sulle due donne, figure che in qualche modo incarnano quasi tutti gli aspetti della relazione umana.

Elena Serra e Chiara Cardea (photo: Luigi Ceccon)
Elena Serra e Chiara Cardea (photo: Luigi Ceccon)

Se finora lo sguardo sul cielo di Torino è stato al lato artistico della rassegna, che in questa edizione ha registrato una qualità degli spettacoli maggiore rispetto al passato, non si può chiudere senza qualche considerazione di ordine “politico-istituzionale-culturale”.

Torniamo ancora a “Edith” come esempio emblematico: è stato prodotto dalle due attrici in scena, anche attraverso operazioni di crowdfunding. E chi è del mestiere sa cosa questo significhi.
Andiamo allora a rileggere il testo del bando per partecipare alla rassegna.

Le proposte saranno valutate dell’Area Produzione e Programmazione del TST sulla base dei materiali allegati, seguiti da eventuali incontri di approfondimento.

Alle compagnie individuate verrà garantito:
– l’inserimento dello spettacolo nella stagione del Teatro Stabile di Torino 2016/17;
– l’inserimento nei materiali promozionali della stagione;
– l’ospitalità per due date al Teatro Gobetti con la relativa disponibilità tecnica del teatro;
– l’incasso al 100% al netto delle spese di SIAE

Alcune riflessioni sorgono spontanee:

– Normalmente nei bandi sono segnalati i nomi di chi giudicherà gli spettacoli. In questo caso chi ha selezionato i progetti? (peraltro, come già detto, di qualità superiore rispetto agli anni precedenti)
– Lo Stabile, nella voce “costi di produzione” del suo bilancio 2015 (visionabile dal sito), riporta una cifra pari a 13.251.834 euro. Perché non prendere allora in considerazione di co-produrre, attraverso un contributo economico – anche piccolo, ma sicuramente importante per le compagnie -, cinque giovani spettacoli che seleziona direttamente? Perché un Teatro Nazionale può offrire alle “compagnie teatrali operanti sul territorio piemontese con un livello artistico professionale” solo visibilità?
– E’ utile mettere in vendita i biglietti di una rassegna, che è sì interna alla stagione dello Stabile, ma si pone “attenta al ricambio generazionale” allo stesso prezzo di tutti gli altri spettacoli in cartellone? 27 € non sono pochi. E se è pur vero che vanno alle compagnie, è d’altro canto difficile puntare sul nuovo pubblico o sui giovani! O vogliamo che questi spettacoli vengano visti solo da addetti ai lavori, familiari e amici?

Chiudiamo questo focus tutto torinese con un’altra notizia assai recente e che riguarda proprio i finanziamenti che (alcune) compagnie sul territorio hanno ricevuto fino al 2016. Come ben sanno gli addetti ai lavori, la giunta Appendino ha da poco deciso di non rinnovare la convenzione con Sistema Teatro Torino, ente che dal 2004 faceva da tramite fra l’amministrazione pubblica, lo Stabile e le piccole e medie realtà teatrali presenti sul territorio: “Non si tratta di tagli, ma di una nuova impostazione” ha voluto precisare l’assessore alla Cultura Francesca Leon.
L’intento dichiarato dal Comune è di ridefinire le linee guida insieme a compagnie ed enti coinvolti, attraverso una serie di incontri avviati in estate.
La voce più ricorrente, in città, è però quella della “morte” del STT, con la preoccupazione di chi – da quell’ente – riceveva dei soldi. Cosa succederà adesso? Si ipotizza un bando a cui tutte le associazioni professionistiche del territorio potrebbero partecipare, con una commissione (speriamo, nel caso, che i nomi vengano diffusi) a valutare i finanziamenti.
Intanto impazzano le polemiche e i rumors fra gli addetti ai lavori, nonostante fosse abbastanza chiaro a tutti, almeno a chi è del settore, che STT fosse da riformare e rivedere.
Quando e come rinascerà? Chi saranno gli interlocutori reali di questo rimodernamento, peraltro necessario e auspicabile?

Dalla nostra non possiamo che augurarci che i futuri finanziamenti raggiungano le compagnie che davvero meritano di essere sostenute. Come “Il cielo su Torino” di quest’anno ci ha dimostrato.

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