Il Dio della carneficina: gioco al massacro di una borghesia piccola piccola

Silvio Orlando
Silvio Orlando
Silvio Orlando è Michel Houillé (photo: teatrodiroma.net)

Sarà che venivamo da “Flessible, Hop Hop!” di Emmanuel Darley, altro francese, anche lui alle prese con un testo di teatro di parola, ma ci sembra che, prima con “Don Chisciotte” degli Incamminati e ora con questo “Dieu du Carnage” (Il Dio della Carneficina) di Yasmina Reza (in scena all’Argentina fino a domenica), i teatri di Roma tornino a puntare sulla drammaturgia. In un certo senso finalmente.

Reza, giovane prodigio della scrittura al femminile e già citata dalla rassegna Face-à-Face al Piccolo Eliseo Patroni Griffi, dove era passato di recente il suo “Tre variazioni della vita”, torna alla ribalta con una pièce molto francese, che un po’ somiglia a quei lavori cinematografici francofoni del canadese Denis Arcand e un po’ strizza l’occhio al buon vecchio Cocteau.

Il coniugi Véronique e Michel ricevono in casa Alain e Annette, genitori di Ferdinand, il teppistello che ha preso a bastonate il figlio Bruno facendogli saltare gli incisivi. Se per Michel e Alain si tratta di una svogliata concessione all’etichetta, per Véronique è un’occasione per “educare all’educazione” e per Annette un buon modo di scaricare le tensioni di un matrimonio tiepido e fondato sulle apparenze. I puntigli delle signore, mescolati all’esplosione nevrotica di Michel e allo stress da businessman di Alain, incrineranno gli equilibri borghesi verso un epilogo tragicomico. Allegoria, il tutto, dell’eterna vittoria di quel Dio della carneficina, espressione di una legge del caos al servizio della quale l’uomo diventa ‘homini lupus’.

La struttura e gli schemi sono allora quelli del Cocteau dei “Parenti Terribili” e del Pirandello di “Così è (se vi pare)” e “Pensaci Giacomino!”, verve dialogica e verbosità invece ancorate alle esperienze francofone di fine e inizio millennio, qua e là colpevoli di qualche esagerazione o forse vittime della traduzione. Ma a evitare possibili scivoloni di ritmo o credibilità, insieme alla regia misurata ma presente di Roberto Andò, ci si è messo un cast d’eccezione composto da Anna Bonaiuto, Alessio Boni, Michela Cescon e Silvio Orlando.

Molti sostengono che mettere insieme nomi del genere, meglio noti oltretutto più per il cinema che per il teatro, somigli tanto a un’operazione commerciale. E magari è anche vero. Ma non saremo noi a dividere così nettamente le barricate per inchinarci, invece, al mestiere d’attore in quanto tale: che, in una pièce come questa che si affida in gran parte al climax e alla tensione, è un’arma fondamentale su cui puntare. Il buon risultato è assicurato anche dalle scene e dalle luci di Gianni Carluccio, che mira alla semplicità un po’ furba riducendo gli immensi spazi dell’Argentina con l’installazione di una pedana circolare rialzata. Sullo sfondo antracite, sporco di gelatine rosse e bucato da un uscio senza porta, si alza un piedistallo su cui poggiano due divani rossi, un tavolino basso e tre vasi di tulipani. Semplice e pure rigoroso scorcio formalista che, grazie a luci precise e localizzate, inquadra il “gruppo di famiglia in un interno” come fosse chiuso nella teca di un museo del futuro.

Le pause che Andò è così bravo a prescrivere, e gli attori così attenti a sostenere, offrono uno squarcio narrativo ulteriore rispetto a quello indicato nel testo, un tempo d’attesa al servizio della riflessione. In altre parole, fotografata a freddo in questa fissità di immagine, luci e movimento, l’idea registica sembra essere quella di presentare la vicenda al vaglio di visitatori esterni, che l’osservano – e grazie alle pause hanno modo di analizzarla – come fosse il simbolo di un vizio della società. Come se tutto lo scorrere e il mutare della situazione fosse il risultato di un esperimento scientifico dietro al quale agisce proprio la mano di quel Dio della carneficina. È in questo scenario, e dunque principalmente grazie alla regia, che torna l’ombra di Pirandello, nel presentare a spettatori esterni l’azione inesorabile di un’aberrazione della volontà: i personaggi, allora, sono liberi solo fino a un certo punto, superato il quale scivolano – loro malgrado – lungo un piano inclinato. Fino a distruggersi a vicenda.

IL DIO DELLA CARNEFICINA
di Yasmina Reza
regia: Roberto Andò
produzione: Nuovo Teatro Gli Ipocriti e Teatro Eliseo Face-à-Face
interpreti: Anna Bonaiuto, Alessio Boni, Michela Cescon, Silvio Orlando
scene, costumi e luci: Gianni Carluccio
durata: 1 h 05’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 17 febbraio 2009

0 replies on “Il Dio della carneficina: gioco al massacro di una borghesia piccola piccola”