Siamo nel 1928, un anno prima della Grande Crisi: come sempre, è sul piano simbolico che l’uomo cerca il riscatto alle stagnazioni subite o presentite.
Ben più concreto e drammatico di un simbolo fu, però, il pack per il dirigibile Italia: il generale Umberto Nobile tentò un trasvolo a cui, anche per le incertezze della sua guida, una parte dell’equipaggio non sopravvisse. Per colpa della neve e dei ghiacci, infatti, il pallone aerostatico precipitò al suolo, sbalzando dalla gondola di comando dieci uomini: i soli che, paradossalmente, trovarono via di scampo, mentre gli altri venivano sospinti dal rimbalzo del pallone verso un cielo da cui non si riaffacciarono.
Marco Paolini, seduto al suo scrittoio, sembra Maigret, e magari un po’ lo è, il Maigret del teatro di narrazione: ci racconta, con la sicurezza dello stile e l’umiltà del genere, tutto questo; e il seguito soprattutto, cioè come Nobile e i suoi uomini, sfruttando gli oggetti e gli utensili caduti dal dirigibile, montarono la loro Tenda Rossa e cominciarono la lotta per la sopravvivenza.
Seguendo il testo-canovaccio per lui preparato da Andrea Camilleri, che ha rielaborato i documenti della commissione d’inchiesta del 1930, Paolini segue in particolare il cammino nel pack dei due ufficiali italiani (Mariano e Zappi) e di quello svedese (Malgrem) che lasciarono la tenda per attraversare i ghiacci fino al punto più vicino alla terraferma, sperando di trovare il modo di farsi notare e ottenere soccorso. Involontari emuli della leggendaria missione «Endurance» del capitano Shackleton («una catastrofe psicocosmica mi sbatte contro le mura del tempo»: non può che tornarci in mente, per omaggio, la voce roca di Manlio Sgalambro nel brano di Battiato che porta il nome dell’esploratore antartico), i tre uomini portano con sé pochi viveri e una Madonna di Loreto.
Di Marco Paolini e della sua straordinaria capacità narrativa è quasi inutile parlare. Non smette di coinvolgere, però, quel suo modo tutto colloquiale e privo di affettazione con cui riesce a giustapporre registri e piccole, sagaci trovate d’attore (vedi la scelta di far parlare Malgrem in veneziano, chiedendo stupito alla platea come mai tutti conoscessero lo svedese): c’è molto mestiere in questo, di sicuro, ma se il mestiere consiste nello sforzo di essere dove non si è stati (siano i ghiacci del polo, il Vajont o le vie geniali della mente di Galileo), di proiettarsi per essere cassa di risonanza – il più possibile sincera – alle emozioni di chi non può più raccontare, allora evviva il mestiere.
Il paesaggio della narrazione è vasto e desolante; sul piano drammaturgico, invece, si percorre insieme un sentiero stretto, quel sentiero che sa evitare la retorica anche se si parla – semplicemente e direttamente – di buoni sentimenti: Camilleri è un maestro, e come uno sherpa sa dove andare e quando è meglio fermarsi.
QUANTO VALE UN UOMO
da un’idea di Andrea Camilleri
traduzione orale: Marco Paolini
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 3′ 30”
Visto a Roma, Auditorium Parco della Musica, il 17 marzo 2014