Interno domestico retrò tripartito: il luogo dei ricordi e delle ripartenze, valigie e album fotografici; il luogo del riposo, un’idea stilizzata di letto disabitato; il luogo dell’ordinario (lampada, sedie, bicchieri e piatti) in cui d’ordinario non resta più niente.
È in una Parigi al crepuscolo della Seconda guerra mondiale, sospesa tra rivolta e collaborazionismo, che la scrittrice Marguerite Duras ambienta “Il Dolore”. Il romanzo autobiografico fu pubblicato nel 1985 dopo il ritrovamento casuale dei diari scritti (e dimenticati) ai tempi della deportazione di Robert, suo primo marito, figura importante della Resistenza francese.
Un’opera psicologica che documenta l’inquietudine dell’attesa e lo strazio della guerra. La Francia è ancora sotto l’occupazione tedesca. Marguerite è angosciata di non avere più notizie di Robert, prigioniero a Dachau. Quando conosce Rabier, agente della Gestapo, si dimostra disposta a tutto pur di rintracciare il marito.
Dolore, in francese, è sostantivo femminile. Sarà anche per questo che incuriosisce Elena Arvigo, che dopo aver portato in scena Sarah Kane, Anna Politkovskaja e gli scritti di Svetlana Aleksievich sull’atomica, esplora, con Marguerite Duras, il connubio tra amore e guerra. Attenta indagatrice dell’anima femminile, Elena Arvigo con “Il Dolore: diari della guerra” completa un’ideale trilogia che parte da “4:48 Psychosis” e ritorna a Milano, sul palco dell’Out Off, attraverso “Una ragazza lasciata a metà”, monologo di Eimear Mc Bride.
La raffinata scrittura scenica dell’attrice e regista genovese coniuga la microstoria privata con la grande Storia dei popoli. Lambisce scritti vari della Duras. Incontra le atrocità dell’Olocausto. Tra un soliloquio e l’altro, spuntano stralci dell’“Istruttoria” di Peter Weiss, basati sulle deposizioni al processo di Francoforte del 1964-65 contro i crimini nazisti nei lager.
Nei diari di Marguerite Duras il tempo scandisce una narrazione introspettiva. La struttura cronologica dilata la storia privata dentro l’oggettività della Storia pubblica. Elena Arvigo pervade il diario intimo della Duras con l’incertezza di un tempo sospeso. Il concetto stesso di tempo, scardinato, diventa ossimoro atemporale.
Una casa. Un disordine che è soprattutto interiore. Una donna sola, bigia, avvolta in un soprabito scuro, avviluppata nel fumo della sigaretta che stringe tra le dita.
“Il Dolore” è parola incosciente. È straniamento che tenta di aggrapparsi al reale per non diventare delirio.
Una calligrafia muta sbeffeggia la letteratura e si sovrascrive alla Storia. Fluisce un tempo secco. Pensieri e parole si confondono in un luogo sbiadito. I ricordi cercano faticosamente un gancio nella cronaca minuziosa.
“Il Dolore” è racconto nitido e nebbioso. Si dispiega, nella messa in scena della Arvigo, un andirivieni di sentimenti, un susseguirsi serrato di movimenti oscillanti, gesti tesi e negati, deliqui e giravolte, convulsioni e silenzi. La voce stride. Le grida sono soffocate. Togliersi il soprabito e rindossarlo di nuovo, ritoglierlo e rindossarlo. L’equilibrio implode su se stesso. La parola è turbolenta. Le vocali sono strusciate.
L’attrice è danzatrice nel buio. È vertigine nel vuoto. È un fascio di scaramanzie e fissazioni. È lancetta impazzita di un orologio sghembo, trottola cadente che ha esaurito l’abbrivo. È foglio sbatacchiato dal vento, come quei giornali bagnati dalle lacrime di altre donne che cercavano notizie di altri uomini partiti o deportati, percossi dalla guerra, smarriti nell’oblio.
Si muove continuamente la stessa scrittura scenica, nevrotica e fragile, algida e chiara. Le membra si fondono, gli arti si liquefanno. Sono gesti, quelli della Arvigo, a volte fin troppo puliti, ma d’attrice d’alta scuola, con un talento da danzatrice e performer.
Anche la luce disegna movimenti lenti, cristallizza le minuzie, come i cocci di piatti rotti su un pavimento attraversato a piedi nudi.
Lo sguardo dello spettatore e quello dell’attrice confluiscono a creare un movimento continuo, a cercare profondità negate da luci sfuggenti, da movimenti inconsistenti, da gesti fragili come le memorie e i sentimenti. Alla parola e all’immagine si sovrascrive la musica, un altro livello di narrazione autonomo ma compenetrato, che muove, sospende, alimenta la tensione, crea contrappunti, stemperando un’ulteriore dimensione dell’emotività.
L’attesa è tutto. Diventando assoluta, essa arriva a sovrastare ogni cosa così da rendersi indipendente dal suo stesso oggetto e da staccarsi perfino dal tempo, che resta sospeso oltre i fatti, le notizie, gli aggiornamenti, e persino i ritorni.
IL DOLORE. Diari della guerra – Primo studio
da “Il Dolore”e “Quaderni della guerra”e altri testi di Marguerite Duras
e da “L’Istruttoria”di Peter Weiss
regia e interpretazione di Elena Arvigo
durata: 1h 30’
applausi del pubblico: 2’ 30”
Visto a Milano, Teatro Out Off, il 19 ottobre 2019