Una scena vuota. Buio. In mezzo un cubo nero. Entra Giovanni, uomo di mezza età, e si piazza al centro. Dalla quinta di fondo a sinistra entra poi Vito, un uomo in là con gli anni, e conquista la luce di proscenio a sinistra.
Inizia così “Il figlio che sarò”, dialogo scenico di e con Giuseppe Semeraro e Gianluigi Gherzi, regia di Fabrizio Saccomanno, presentato al Teatro Fontana di Milano appena prima della nuova serrata per il Covid.
Il sodalizio Semeraro-Gherzi risale a quattro anni fa con “A cosa serve la poesia”, tenzone in versi tra quotidiano e infinito. La nuova produzione Principio Attivo Teatro s’ispira invece a “Lettera al padre” di Kafka, e tratta il tema dell’incomunicabilità tra padri e figli.
Sulla scena il cubo è principio d’ordine e orientamento spaziale e morale. È simbolo di ciò che è saldo e durevole. Il cubo di salgemma, ad esempio, evoca l’armonia delle forze naturali. In Platone il dado è l’elemento terra. “Il figlio che sarò” snocciola proprio i valori legati alla terra: l’unità familiare, il senso del sacrificio in una campagna pugliese atavica, il lavoro per sgrezzare la pietra, sulle cui fondamenta nasce l’autoeducazione morale. Ma qui il cubo è nero, come il mistero e incoscienza, come l’oscurità della notte e del lutto.
La tromba di Chet Baker in “Let’s get lost”, invita ad abbandonarsi a un abbraccio onirico, a sciogliere il ghiaccio dei cuori in una nebbia romantica. Vito, un vecchio professore di lettere (Gherzi), e Giovanni, suo ex allievo (Semeraro), si ritrovano vent’anni dopo l’esame di maturità. Giovanni è ormai padre, e chiede a Vito consigli su come scalfire il muro di silenzi che lo separa dal figlio. Vito accompagna Giovanni nel luogo dei ricordi. Giovanni viaggia a ritroso. Attraversa gli errori e i tormenti dell’adolescenza. Va incontro alle proprie fragilità di ragazzo. Regredisce al rapporto complicato con suo padre. Ritrova il figlio che è stato, per costruire il padre che sarà.
Iati generazionali. Figli orfani di genitori vivi. Nuovi padri putativi, scoperti dentro un’aula scolastica, tra gli sbadigli e i lazzi per far scorrere l’ora di lezione.
La fatica di crescere dentro un Sud periferico e assolato. L’aria di campagna che sa di fughe e malattia, di dolore e libertà. Un romanzo di formazione dai tratti autobiografici. Percorriamo l’educazione sentimentale di Giovanni tra sala giochi, birre e fumo: il lavoro a undici anni in una panetteria, l’odore caldo di pane appena sfornato, gli immaginari erotici. Vite balorde di adolescenti senza meta, fra presente irrisolto e futuro incerto. Ghigni e smargiassate, colpe e pentimenti, e la spavalda espressività di un rutilante dialetto pugliese.
Meccanismi disfunzionali dominano le relazioni tra padri e figli, segnate da un’angosciosa difficoltà di comunicazione. In questo racconto tra letteratura e psicanalisi, i rapporti tra generazioni sono improntati a un’oscillazione schizofrenica tra amore e odio. Non ci sono accuse: c’è la consapevolezza che l’educazione autoritaria ricevuta da bambini può essere la radice di inquietudini che permangono da adulti e si riversano sui propri figli una volta che si diventa padri, magari nei risvolti di un’educazione troppo permissiva.
Padri-facciata che si mostrano infallibili; padri-cornacchia che sputano sentenze; padri-statua, impassibili sui loro piedistalli; padri-megafono che gridano ordini. Padri davvero, quando si fa pace con il passato e con le proprie fragilità.
Poi c’è la scuola. C’è l’incontro con “quel” professore che ti cambia il modo di vederla, la scuola, e magari ti cambia la vita. Un professore può essere un altro padre, che ti apre una nuova visuale sul padre di sangue, e ti rivela una parte di te che prima ignoravi.
Non solo lezioni ma libri, poesie, film da cineteca e canzoni d’autore. Come “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, e i brani jazz di John Coltrane e Miles Davis. Giovanni trovava il vero sé a scuola, lo metteva a nudo in quei temi d’italiano interminabili, senza un punto, flussi di coscienza contorti, ma dentro c’era la sua anima.
Un dialogo attoriale placido, viscerale, irrequieto. Un testo giocato sugli equilibri. Un ritmo vivace e mai forzato. Lo spazio per la riflessione diventa trama di soliloqui. Lo scambio spirituale diventa contatto. La memoria è rifugio psicanalitico e salvezza fisica.
Le luci orchestrate da Saccomanno scandiscono il tempo dei flashback, disegnano le traiettorie del cambiamento.
Perdersi, ritrovarsi. Perdonare, perdonarsi. “Il figlio che sarò” è un’altra pagina di bellezza targata Semeraro-Gherzi, che insegna la leggerezza di essere figli, per scoprire il piacere di diventare padri.
IL FIGLIO CHE SARÒ
Un progetto di Giuseppe Semeraro e Gianluigi Gherzi
Con Giuseppe Semeraro e Gianluigi Gherzi
Regia Fabrizio Saccomanno
Produzione Principio Attivo Teatro
Ph Francesca Randazzo
durata: 1 h 5’
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Fontana, il 24 ottobre 2020