Torniamo oggi, in questa nostra giornata tutta dedicata al teatro di figura, ad Incanti, che in quest’edizione ha proposto al pubblico un programma eterogeneo, composto da ombre, recitazione, canto e influenze letterarie.
Ne è stato un esempio la messa in scena di “Les Chants de la mi-mort”, audace opera di Alberto Savinio datata 1914 e rinata grazie alla regia di Luca Valentino per il festival Scatola Sonora in collaborazione con Controluce Teatro d’Ombre.
L’allestimento è da considerare una contaminazione originale, in cui si incrociano e fondono diverse tecniche teatrali e visive in cui le ombre, realizzate e animate dai bravi allievi della Piccola Accademia del Teatro Ragazzi e dell’Animazione, riescono a creare un’atmosfera sospesa e onirica che cattura lo spettatore.
L’opera di Savino, eseguita dal vivo dal Conservatorio di Alessandria, è sostenuta dalla voce recitante di Paola Roman, che regala corpo e voce ad un misterioso personaggio/manichino in carne ed ossa, che si trova ad interagire con oggetti, pupazzi, ombre e video in un alternarsi di narrazione surreale e quasi astratta, a volte difficilmente comprensibile.
La scenografia, un’imponente struttura in cartone e superfici da proiezione, emerge dal centro del palco come un totem sospeso nel tempo che ricorda, a tratti, un’astronave. Attorno o sopra di essa compaiono ombre, proiezioni di vecchi filmati in bianco e nero di meccanismi ed ingranaggi, ed è quasi un peccato vedere gli animatori e l’attrice in scena interagire così poco con una struttura che assorbe, con la sua mole, molte delle attenzioni degli spettatori.
Lo spettacolo, guidato da una dinamica inquieta, patisce forse di un ritmo a volte troppo dilatato e di una drammaturgia visiva e musicale complessa e di difficile comprensione.
La sensazione che resta è quella di aver assistito, nonostante il lodevole omaggio ad un’opera originale e onirica, ad una rappresentazione di un’avanguardia lontana, che oggi è già storia e che fatica a dialogare con il pubblico contemporaneo.
Uno degli spettacolo più attesi (e a ragione) di questa edizione è stata invece una rilettura profondamente sagace de “Il Giardino dei Ciliegi” di Čechov attraverso l’inaspettata ironia delle ombre di Nori Sawa, proiettate in prima nazionale ad Incanti per “Shadows of Cherry Orchard”.
Che il sarcasmo fosse sottilmente presente nel testo originale di quella che Čechov pretendeva essere una farsa e Stanislavskij volle commedia, lo sottolineano le caramelle che Gaev succhia avidamente tra una battuta e l’altra, il personaggio impacciato di Epichodov, le reazioni melodrammatiche di una troppo delicata Duniaša, l’irrisione generale che trasuda dall’intera sinfonia degli intrecci che legano i personaggi l’uno all’ altro in conflitto dialettico.
Nori Sawa, mescolando figure dalla delicatezza quasi effimera delle forme a volti in cartone carichi di marcati dettagli, seleziona alcune delle narrazioni nascoste nel racconto di Čechov e, al contrario del “tra le righe” dell’autore russo, le esplicita attraverso giochi di luce dal personale taglio umoristico.
Riempie, insomma, gli spazi di quello che fu definito da Jean-Louis Barrault il silenzio antidrammatico del drammaturgo, la densità della vita attraverso i dialoghi, oltre i dialoghi: l’annegamento del figlio di Ljubov Andreevna, gli inconcludenti intrecci amorosi che permeano il testo, l’arrivo in treno da Parigi, il progressivo declino del giardino e il logoramento, la lottizzazione interiore (e proprietaria) dei personaggi, carte tagliuzzate arricciarsi e “gettarsi fuori scena” come corpi in pezzi.
Nori Sawa esacerba il ridicolo a cui Čechov solo accenna e, nonostante il cullare delle ombre su musiche da carillon composte da Toshihiro Nakanishi, a rendere l’ambientazione onirica e sospesa, le mani s’insinuano diventando personaggi loro stesse e creando situazioni di immediata e dissacrante comicità.
Sia attraverso la dolcezza poetica di giardini e foglie dal minimalismo nipponico, sia per l’uso d’immagini fiabesche dal sapore noir ed occidentale, influsso del teatro delle marionette di stampo praghese, terra d’adozione di Nori Sawa, la superficialità borghese, aristocratica e culturale su cui vertono le analisi del testo di Čechov è resa evidente grazie a figure eterodirette, prive di controllo e direzione, futilmente aggrappate ad un nulla sfuggente.
“Shadows of Cherry Orchards” non è tuttavia l’unica rappresentazione che Nori Sawa ha portato ad Incanti e, con divertite espressioni onomatopeiche, lo scambio di battute con il pubblico, la mimica facciale che contamina i cortometraggi successivi d’ispirazione popolare, ha presentato rivisitazioni de “I Tre Porcellini”, “Cappuccetto Rosso”, la “Sirenetta”, o le avventure di un vermicello rosso trasformarsi in una “Stella”.
Ed essendo i suoi personaggi essenziali, sono la narrazione e i meccanismi che scatenano il riso la ricchezza espressiva del suo teatro di figura che, a partire da racconti infantili, inscena un’ironia adulta e disillusa, carica di doppi interpretativi.
Annullata la divisione fisica e simbolica tra “luogo dell’azione” e “retroscena”, il deus ex machina che muove pupazzi e figure di carta si fa maschera egli stesso.
Nori Sawa è parte dei suoi spettacoli, protagonista imprescindibile del mondo di fantasia che crea attraverso gli oggetti, le ombre, i burattini: con loro litiga e gioca, con loro infine s’inchina a raccogliere i meritati applausi.