“Il giardino dei ciliegi” è un’opera vecchia […]. Di che cosa parli, nessuno lo sa.
Aleksandr Minkin, in un suo (non troppo) noto intervento dal titolo “Nežnaja Duša”, denunciava l’assoluta mancanza di cognizione con cui registi e attori si sono, nel tempo, accostati all’ultimo testo di Čechov. Era, tra l’altro, la medesima critica mossa dall’autore a Nemirovich e Stanislavskij dopo aver avuto il dispiacere di veder rappresentata la propria pièce dal Teatro d’Arte di Mosca; lo si legge nel carteggio, un’epistola datata 10 aprile 1904, con la moglie Olga Knipper, che in quell’allestimento interpretava Ljuba (il “medico di scena” morirà poi tre mesi più tardi).
Grava dunque sulle spalle dell’opera una secolare storia di insoddisfazione e incomprensione. Tornado a Minkin, può dirsi uno dei pochi studiosi onesti dell’“anima dolce” di Taganrog, uno di quelli cioè che l’ha letta «almeno una volta» e con precisione. Difatti, «ascoltare e dire Čechov – spiega la consulente linguistica Vera Rodaro – è un fatto di grande attenzione». Minkin lo ha scomposto, se n’è nutrito, lo ha metabolizzato.
Di questo approccio analitico sembra essersi poi servito anche Valter Malosti. La metafora gastronomica appare calzante se si tien conto del fatto che il titolo originale suona “Višnëvyj Sad”, alla lettera “Giardino di amarene” o “Giardino di viscioli”, frutti che – chissà se per caso – svelano al palato un gusto ben più acido delle altre varietà di ciliegie.
E se è vero che i nomi sono le soglie identificative di un corpo, allora è lecito pensare che Čechov cercasse di concludere la propria vicenda biografica e artistica con un dramma “agrodolce”, refrattario a qualsiasi definizione, a quelle tanto odiate “categorie” di tragedia e commedia cui è insofferente anche Elena Bucci/Ljuba, come l’attrice stessa ha dichiarato il 12 ottobre scorso durante l’incontro Retroscena rivolto al pubblico, organizzato nei locali del Teatro Gobetti di Torino.
Uno dei meriti del “Giardino” di Malosti, nuova produzione dello Stabile cittadino (in scena fino al 30 ottobre), è quello di aver saputo mantenere una quasi totale aderenza non solo alle parole, ma anche al possibile “sapore” alterno voluto dal primo autore, muovendosi tra flussi tragici e pacato vaudeville. Un alto grado di fedeltà che, tuttavia, produce un’insolita interferenza. Un Doppler teatrale.
«Non ho voluto modernizzare il testo, quanto accostarmi come a uno dei grandi capolavori universali, quasi fosse un libro sacro che arriva a noi da lontano e che necessita solo di essere reinterpretato con lo spirito del nostro tempo, e la nostra sensibilità, non cambiando nulla della lettera del testo – ci racconta Malosti circa la sua regia – Ho chiesto a Vera Rodaro di aiutarmi a rispettare l’identità dell’opera, e ho tentato di restituire in italiano la ricchezza di sfumature della sua scrittura, e ad ogni personaggio la propria cifra espressiva, attraverso un lavoro accanito sul testo originale tradotto in modo letterale e approfondendo i campi semantici di alcune parole che nella mia versione italiana non “suonavano”».
Lo studio registico sulle “sudate carte” si avverte tangibilmente in platea. Purtroppo però il tentativo di parlare al presente naufraga. Questo repêchage checoviano educe, ma non seduce: è un “qui e all-ora”, un gioiello da museo (o forse un bel quadro di Arcimboldo), meritevole d’essere esposto in una pinacoteca o in una collezione, ma comunque rigido (non sempre, ma troppo spesso) nei suoi sviluppi. E non è certo colpa dei costumi, finalmente storici e a tema.
La prima parte dello spettacolo è invero piuttosto algida. D’altronde siamo in Russia. La rappresentazione procede per più di un’ora come un’autopsia su tavolo settorio (complice anche la luce violacea). Si riscatta invece (per assurdo, visto che in essa non accade proprio nulla) nella seconda metà, dove la fiammella del “sediamoci e parliamo” torna ad ardere e a comunicare (un poco) con gli astanti, con i loro cuori.
Non riesce a sfumare questo amaro retrogusto neppure la bella scenografia curata da Gregorio Zurla: si tratta di una sala corrosa, su cui gravano polvere e sfacelo. Ma il tempo, la bellezza borghese, resistono ancora in alcune componenti d’arredo (i lumi, le poltroncine purpuree, la porta della camera di Anja, una cornice). Simbolo supremo di vanitas è poi il teschio alla Yorick che compare sotto la lapidea panca di Epichodov/Gaetano Colella. La composizione si dispone su rette sghembe, che creano un lodevole contrasto tra l’ambiente esterno e i movimenti flessuosi della famiglia.
Gli unici che si lasciano ragionevolmente trasportare da un moto più scomposto sono Jasa/Jacopo Squizzato e Dunjasa/Camilla Nigro, durante i loro convegni “sentimentali” o nelle rispettive rivendicazioni (di una vita nuova per il primo, di attenzioni per l’altra).
Il piano di calpestio è verde, come un enorme tavolo da biliardo; si potrebbe pensare che quella sconfinata distesa diventerà presto terreno fertile per rampicanti e malerbe, in una decadente sinergia tra natura matrigna e architettura. In realtà a infrangere anche quest’ultimo sogno di vita è la parete metallica che cade giù alla fine, come il sipario-ghigliottina dei “Giganti” di Strehler, intrappolando il povero Firs, magistralmente interpretato da Piero Nuti, al quale ora non resta che morire.
In questo modo, tutto il dolce lirismo insito in quel titolo, “Giardino dei ciliegi”, viene meno.
Del tutto improbabile, invece, la discesa del faccione metafisico di Lenin, che vorrebbe forse evidenziare – con simbolismo scontato – una qualche connessione tra ieri e oggi, o fra tepore aristocratico e minacce rivoluzionarie (quella del 1905 prima, quella bolscevica poi).
L’impianto spettacolare è comunque retto da attori tecnicamente inappuntabili, molto capaci, che riescono a proporre declinazioni diverse di una ricca “minestra” di tipi umani. Momenti di intensità, in cui – per un istante – si strappa il cielo di carta, sono il bacio tra Ljuba e Lopachin (il concreto personaggio di Fausto Russo Alesi) e il dialogo tra Carlotta/Eva Robin’s (felicissima rivelazione di questo allestimento) e Firs, un dialogo che tocca il tasto dolente degli incerti natali.
Riescono però ad arrivare “oltre confine” (insieme a Nuti e alla Bucci) solo Trofimov, l’eterno studente di Giovanni Anzaldo, e Varja, la figlia di serie B. Ne parla anche al pubblico Roberta Lanave: «Varja è la figlia adottiva, che chiama Ljuba “mamushka” e che rispetto ad Anja si trova sicuramente in una posizione di secondo piano». È la ragazza che si rifugia nel rigore domestico perché nessuno sa amarla davvero, ottenendo però l’effetto contrario, cioè il disprezzo della servitù. È il figliol non prodigo, per il quale non si imbandiscono tavole, vitelli grassi o Stroganoff in panna acida. È il personaggio più umano di tutta la vicenda e l’attrice lo compone con acume.
In generale, il complesso scenico genera ammirazione intellettuale, una certa contemplazione; ma di quell’impetuoso flusso emotivo promesso nelle note di regia non resta granché. Tradurre e tradire, la radice è la stessa. Ma questa produzione sembra parlare, più che a noi, alla cultura di partenza con la lingua d’arrivo. Che è quanto appunto fanno i manufatti dei musei, che con gusto antiquario ci raccontano un mito finito. D’altra parte, è l’entrée della stagione: non si può sbagliare. E forse non si può nemmeno osare troppo.
È vero: gli anti-eroi di Čechov vivono in un «tempo inquieto, di lacerazione», come direbbe Malosti. «Le cose stanno cambiando». Ma questa stessa frase si può applicare anche (e infatti i programmi di sala ne sono pieni) ai testi di Euripide, di Shakespeare, di Machiavelli, di Pirandello. Fare museo non è fare mausoleo (e chi lo crede è uno sciocco). Ma – considerando il panorama sconfinato di opere sommerse e di nuova, a volte pregevole, drammaturgia – forse è il caso di trasformare l’affermazione del regista in una domanda: dobbiamo regolarmente ritornare sugli adattamenti dei testi classici? Che poi è chiedersi, provocatoriamente ma una volta per tutte: quanto sanno ancora parlarci?
Il giardino dei ciliegi
di Anton Čechov
versione italiana e regia Valter Malosti
consulente per la lingua russa Vera Rodaro
con Elena Bucci, Natalino Balasso, Fausto Russo Alesi, Giovanni Anzaldo, Piero Nuti, Eva Robin’s, Roberto Abbiati, Gaetano Colella, Roberta Lanave, Camilla Nigro, Jacopo Squizzato
e con gli allievi della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino Federica Dordei e Alessandro Conti
costumi Gianluca Sbicca
scene Gregorio Zurla
suono Gup Alcaro
luci Francesco Dell’Elba
cura del movimento Alessio Maria Romano
assistente alla regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno della Fondazione CRT
durata: 2h 30′
applausi del pubblico: 3′ 04”
Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 18 ottobre 2016