Michele Mariotti alla guida dell’orchestra conferma la sua piena maturità
Molti i motivi di interesse che ci hanno spinto al Teatro alla Scala per assistere al “Guillaume Tell” di Gioachino Rossini, a cui per altro avevamo già assistito diverse volte, ma ce n’è uno sugli altri: il fatto di poterlo ascoltare nella sua edizione originale, divisa in quattro atti in francese senza tagli, con tutte le sue danze e i momenti coreografici, per più di quattro ore e mezza di meraviglioso ascolto che terminano con un inno glorioso alla libertà e all’amore, che rappresenta il canto del cigno di uno dei compositori che in assoluto amiamo di più. Un compositore di 37 anni, ancora pieno di energia creativa, che ad un certo punto decise di smettere (per fortuna anche dopo ci ha lasciato “La petite messe solemnelle” e “Péchés de vieillesse”), sentendosi forse inadeguato al nuovo sentore musicale che avanzava o, per i più maliziosi, perché, ricco com’era, poteva rimanere in panciolle.
Ma quello che più ci intenerisce è sapere che in questa opera ci sono tutti i germi di ciò che avverrà dopo, dal genere francese del Grand Opéra al melodramma romantico. Un Romanticismo già ben presente, e che ci avvince ogni volta che ascoltiamo quest’opera, in cui la natura si fa protagonista anche attraverso gli elementi caratteristici della sua ambientazione svizzera, come i Ranz de vaches (richiami dei pastori), connaturandosi con l’amore della libertà e della propria patria.
“Guillaume Tell” trae spunto dal dramma omonimo (Wilhelm Tell) di Friedrich Schiller e dal racconto “La Suisse libre” di Jean-Pierre Claris de Florian, elaborato inizialmente da Étienne de Jouy, e in seguito da Hippolyte-Louis-Florent Bis.
L’opera, che nacque dopo una lunga gestazione, ebbe la sua prima rappresentazione al teatro dell’Opéra di Parigi il 3 agosto 1829, mentre la prima italiana (in tre atti e non nei quattro dell’edizione originale in francese) avvenne a Lucca il 17 settembre 1831, nella traduzione italiana di Calisto Bassi.
“Guillaume Tell”, che si svolge sul lago di Lucerna nel Canton di Uri, narra l’epopea dell’eroe svizzero Guglielmo Tell e della sua lotta contro il governo asburgico, rappresentato dal governatore austriaco Gesler. Collegato a questi avvenimenti vi è l’intreccio amoroso, che lega il giovane Arnold, figlio di Melcthal, uno dei più fieri oppositori del regime, con Mathilde, principessa d’Asburgo.
Guglielmo, invano incita Arnold alla lotta che, solo dopo aver appreso dell’uccisione del padre da parte di Gesler, decide di unirsi ai rappresentanti dei vari Cantoni, convenuti per il solenne giuramento contro l’oppressore.
La scena più iconica dell’opera (il famoso rabbrividente “Sois immobile!”) è la sfida lanciata da Gesler a Guillaume che, conoscendone l’abilità d’arciere, gli offre vita e libertà se sarà in grado di colpire con una freccia una mela posta a distanza sulla testa del figlio Jemmy (interpretato da un soprano).
La riuscita dell’impresa farà scattare la ribellione che porterà alla libertà del Paese, con anche l’aiuto di Arnold, che potrà ricongiungersi con la sua Matilde, personaggio che ha, nella sua aria di entrata, uno degli altri momenti più famosi dell’opera (“Sombre foret”), la quale precedentemente aveva preso sotto la sua protezione Jemmy.
La grandezza e la particolarità dell’opera si intuiscono già dalla variegata e famosissima ouverture, articolata in quattro movimenti, che ben sintetizza gli umori e le atmosfere di tutta la vicenda: la calma del dialogo tra violoncelli, lo scatenarsi della tempesta, l’“andante pastorale”, la famosissima fanfara aperta dalle trombe e sviluppata da tutta l’orchestra.
E poi c’è il sublime finale, che tutti gli italiani ricordano in altro modo per essere stato, pur con diversi accenti, per molti anni la sigla iniziale della televisione italiana: “Tout change et grandit en ces lieux.Quel air pur! Quel jour radieux! Au loin quel horizon immense! Oui, la nature sous nos yeux Déroule sa magnificence. À nos accents religieux, Liberté, redescends des cieux. Et que ton règne recommence! Liberté, redescends des cieux, Et que ton règne recommence!”.
Qui il sentimento che lega gli uomini al concetto di libertà si esprime in un tripudio musicale di commovente e ispirata bellezza.
Ma sono molti gli altri momenti che amiamo del Guillaume Tell, dall’aria di Arnold, con cui si apre l’ultimo atto “Asile héréditaire”, al tumultuoso concertato che termina il primo atto, fino ai ballabili, considerati minori, del primo e del terzo atto, troppe volte eliminati, per arrivare ai suoni dei corni che immettono meravigliosamente nel clima dell’opera.
Troppi, e spesso confusi, i segni presenti nella regia di Chiara Muti, che abbandona l’idea romantica di ambientare la vicenda tra i monti della Svizzera. Con l’aiuto dello scenografo Alessandro Camera e del light designer Vincent Longuemare, la regista immette tutta l’opera – attraverso un’idea certamente personale ma alquanto opinabile – in un tempo imprecisato, dominato da grandi strutture ferree modulabili che si spostano, facendo immaginare allo spettatore prigioni in cui i nostri poveri svizzeri, muniti di tablet (sic!) e acconciati come i famosi abitanti-operai di “Metropolis” di Fritz Lang (i costumi sono di Ursula Patzak), rifuggendo il loro passato composto da libri, vivono in un mondo oscuro, spesso dominato dalla nebbia.
L’idea al centro del tutto è la lotta tra il bene e il male, tra l’ombra e la luce, con le masse immaginate come poveri carcerati in attesa della libertà, che alla fine, finalmente, si possono disfare dei loro grigi e consunti vestiti.
Tell invece è l’eroe che combatte Gesler, il quale ci appare come una specie di demonio incappucciato di rosso. I suoi soldati hanno armi che rimandano a diverse epoche: dalle spade alle lance, dalle mitragliatrici alle immancabili pistole.
Il tiranno appare protagonista nel terzo atto, in una sorta di giardino dominato da un albero enorme e rinsecchito, da cui pende una specie di sudario insanguinato; qui è rappresentato come una specie di mago cattivo, contornato da fate e streghe, e dove incatena le sue vittime, ipnotizzandole.
Una regia nel complesso sconclusionata ci è sembrata quella di Chiara Muti, che contiene alcune idee anche degne di nota (come la barca di Tell insidiata dall’ombra della morte, o la balestra che passa di mano tra le generazioni, e ancora il padre di Marchaly come Cristo in croce, la ferocia degli sgherri di Gesler che stuprano le donne nei ballabili del primo atto), idee che tuttavia si perdono in una miriade di segni sconfinanti, a tratti, nel ridicolo.
Ciò che emerge di profondamente sbagliato è come la natura, parte intima di un’opera che ha rappresentato un vero ponte verso il futuro, non possa essere confinata – come invece accade – in un cielo stellato o nell’ombra di un fogliame di un bosco o, alla fine, di uno scorcio alpestre.
Il potere (altro elemento determinante dell’opera), avulso da ogni altro riferimento, viene qui rappresentato come una specie di mostro che vive in un mondo fantasy, quasi da serie televisiva. In questo modo non se ne dà sì una lettura contemporanea, ma fuorviante e limitativa. Regie di questo genere finiscono per dar ragione ai ferventi della tradizione (da noi tanto detestati) che alla Scala hanno pesantemente rumoreggiato, con buona pace dei Michieletto e Vick che, con sapienza, ci sanno restituire un’essenza contemporanea ancor più profonda delle opere che dirigono.
Di tutt’altro spessore la parte musicale. La parte vocale è dominata da Michele Pertusi come Tell, che in questi ultimi anni abbiamo avuto la fortuna di ascoltare diverse volte con piacere. Come sempre è accaduto, anche qua nel “title role” è sempre in parte, sia come padre affettuoso, sia come eroe del suo popolo. Applausi convinti da tutto il pubblico per la vibrante commozione che esprime nel già citato “Sois immobile, et verse la terre”. Lo stesso dicasi per Dmitry Korchak, efficace sia nel declamare il suo amore per Mathilde nel primo atto, sia nell’aria sua più difficile nell’ultimo, “Asile héréditaire”. Salome Jicia come Mathilde delinea bene la sua celebre aria di entrata, “Sombre forêt”, mentre ci è parsa più in difficoltà nei successivi duetti con Arnold.
Catherine Trottmann è nel complesso credibile in scena e vocalmente come Jemmy, il figlio di Guillaume, anche se nel finale del primo atto fatica un poco a farsi sentire, mentre Géraldine Chauvet è una convincente Hedwige, moglie di Guillaume. Luca Tittoto si è lasciato dirigere in modo credibile, vocalmente e scenicamente, come malefico tiranno Gesler.
Ci ha convinto pienamente Michele Mariotti, giunto alla sua piena maturità di direttore d’orchestra, per un’opera che avevamo già visto dirigere 13 anni fa a Pesaro con la regia del nostro amato Graham Vick. Mariotti fa risplendere l’orchestra fin dall’ouverture, riuscendo in seguito a delineare in modo perfetto tutti i diversi accenti che percorrono questo capolavoro e i suoi protagonisti, coadiuvato degnamente dal Coro, istruito da Alberto Malazzi, che nel “Guillaume Tell” ha parte rilevantissima.
Guillaume Tell
Gioachino Rossini
Melodramma in 4 atti
Direttore MICHELE MARIOTTI
Regia CHIARA MUTI
Scene ALESSANDRO CAMERA
Costumi URSULA PATZAK
Luci VINCENT LONGUEMARE
Coreografia SILVIA GIORDANO
Cast
Arnold Melchtal Dmitry Korchak
Guillaume Tell Michele Pertusi
Walter Fürst Nahuel Di Pierro
Melchtal Evgeny Stavinsky
Gessler Luca Tittoto
Rodolphe Brayan Ávila Martinez
Leuthold Paul Grant
Ruodi Dave Monaco
Mathilde Salome Jicia
Jemmy Catherine Trottmann
Hedwige Géraldine Chauvet
Un chasseur Huanhong Li*
*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala
Libretto di Étienne de Jouy e Hippolyte-Louis-Florent Bis
Edizione critica a cura di E. C. Bartlet della Fondazione Rossini di Pesaro in collaborazione con Casa Ricordi, Milano
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala
5 ore circa inclusi intervalli
Visto a Milano, Teatro alla Scala, il 6 aprile 2024