Molière, ovvero il Terenzio della più splendida e raffinata corte europea. C’è da stupirsi che siano passati tre secoli e mezzo da quando andava in scena per la prima volta “Il malato immaginario”.
Quest’opera, rinverdita da Andrée Ruth Shammah al Teatro Franco Parenti di Milano, è di una modernità sconcertante. Anzitutto perché mette a nudo nevrosi, ipocondrie e ossessioni della società contemporanea. Poi perché ribalta, con congruo anticipo sulla Rivoluzione Francese, gli schemi maschio/femmina, padre/figlio e padrone/servo.
Potenza di un testo capace di rappresentare un mondo vivo, in cui ogni personaggio è un individuo unico fortemente caratterizzato. Ma anche capacità degli attori e della regista di tramutare i codici dietro la farsa, restituendo vigore a caratteri da commedia dell’arte.
Argante, interpretato da un Gioele Dix che scoppia di benessere, è forse la personificazione più paradossale della nostra epoca in bilico tra salutismo e psicofarmaci. Quando il medico gli chiede che sintomi accusi, lui risponde: «Tutti». Perché il disagio esistenziale è tutto e niente. E la malattia s’insinua ovunque: nell’io, nelle relazioni, nella storia.
Qui il placebo è un mix di purghe e clisteri. Ma il male è in testa, non nell’intestino. La malattia definisce gli equilibri nei rapporti umani. E la morte (finta) permette l’agnizione dei sentimenti, con appendice festosa che esorcizza un fondo di dolore.
Sono passati trentacinque anni dal fortunato allestimento del “Malato” diretto ancora da Shammah, con Parenti nel ruolo di Argante.
Mezza vita dopo, Gioele Dix, senza complessi né emulazione, rileva i galloni del protagonista. Il suo personaggio è burbero e insolente, ma sa ascoltare. È autoritario, ma sa ammettere gli errori. Duro e infantile, capriccioso e disperato, qui sovrasta anche fisicamente i comprimari (Marco Balbi, Valentina Bartolo, Francesco Brandi, Piero Domenicaccio, Linda Gennari, Pietro Micci, Alessandro Quattro, Francesco Sferrazza Papa).
Argante giostra, schermaglia, maramaldeggia. È il centro della scena. Gioele Dix esula dal cliché del convalescente rattrappito in una poltrona. Si fa carico dei mali del mondo, recitandoli da perfetto commediante. Non è forse questo il compito del teatro?
Non meno ricca di sfumature è la serva Antonia. Anna Della Rosa, con un’eleganza che la mette al riparo dal bozzetto di maniera, dimostra astuzia, capacità d’immaginazione e prontezza di linguaggio. Misurata e giocosa, è l’ago della bilancia che rilassa lo spettatore, mettendolo in condizione di assorbire la profondità del testo.
Shammah rimette a lucido quel tanto che basta la messinscena per cancellare la patina del tempo. I suoni sono rarefatti, distillati come gocce. Anche qui, come nel “Lavoro di vivere”, penultima regia della direttrice del Parenti, sciaborda uno sciacquone, a richiamare un momento di quotidianità prosaica. Siamo pur sempre nella casa di un “malato”.
Un movimento scenico dosato, vivido, senza fregole, tiene in linea di galleggiamento una pièce lunga e frizzante.
La scena grigia, mai tetra, con un impianto luci che dosa al minimo le zone d’ombra, è leggera come un quadro di Bacon, con pochi dettagli tecnici.
Le quinte trasparenti, vagamente metafisiche, unificano personaggi e spettatori nel comune presupposto che verità e menzogna, conscio e inconscio, sono uniti da un tratto flebile. La vita è una partita a carte scoperte. È la nostra volontà, la consapevolezza, a decidere vittorie e sconfitte, la voglia di governare gli eventi o di restarne soggiogati.
Shammah studia gli incroci e le dinamiche relazionali. Si sofferma persino sui tic dei personaggi. Qualcosa si poteva guadagnare in icasticità con minimi tagli. Ma non valeva la pena tarpare le ali ai bravissimi attori, tantomeno intaccare un capolavoro del teatro europeo.
In scena a Lucca dal 6 all’8, l’11 a Vercelli, a Monza dal 12 al 15 marzo per poi proseguire la ricca tournée.
IL MALATO IMMAGINARIO
di Molière
traduzione: Cesare Garboli
con: Gioele Dix, Anna Della Rosa Marco Balbi, Valentina Bartolo, Francesco Brandi, Piero Domenicaccio, Linda Gennari, Pietro Micci, Alessandro Quattro, Francesco Sferrazza Papa
scene e costumi: Gianmaurizio Fercioni
luci: Gigi Saccomandi
musiche: Michele Tadini e Paolo Ciarchi
regia: Andrée Ruth Shammah
produzione: Teatro Franco Parenti
durata: 2h 30’ più intervallo
applausi del pubblico: 3’ 30”
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 26 febbraio 2015