Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni firmano la regia del testo di Fabrizio Sinisi
Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni e il loro gruppo sono arrivati, negli anni, a una maestria compositiva stupefacente – e con ciò s’intende la capacità, attraverso l’uso consapevole di tutti gli elementi sulla scena, di accendere il palco a vita autonoma.
Per quanto riguarda il lavoro degli attori, sarà forse stato l’esercizio con la scrittura di matrice anglo-americana (Caryl Churchill, Edward Bond, Andrew Bovell, Miranda Rose Hall tra gli altri) a suggerire la giusta trasparenza del dialogo, o forse anche l’ininterrotto affinamento di un linguaggio scenico condiviso, di una voce, una koinè di palco, che gli uomini e le donne in scena si passano, riconoscibile ma rispettosa delle individualità.
Tutto ciò e qualcos’altro – che sembrerebbe una capacità di sorvolare l’arco temporale dello spettacolo, di guardarlo compiersi dall’alto con un controllo superiore e, perciò, sereno, come se lo si allestisse su una mappa – fa sì che il gruppo sia capace di portare in scena un organismo autoportante, vigoroso, generoso, dove il compito di ciascuna parte è esteso per l’intera durata dello spettacolo – uno spettacolo che finisce per fare del palco stesso, della sua attività, come si dirà meglio poi, il protagonista dell’azione.
È quella superiore serenità la chiave costruttiva, se non espressiva, con la quale Lacasadargilla, questa volta autrice con i suoi attori e attrici anche delle parole del testo (Fabrizio Sinisi alla drammaturgia), affronta la straziante solitudine che conosciamo propria della vita nei nostri tempi, alle nostre latitudini, senza mai cedere alla tentazione di fare sermoni o di rincantucciarsi nella poesia esplicita o nel sentimento sfogato.
Mai una parola fuori dai denti – nonostante tutto quel dolore.
L’intero lungo convoglio di “Il Ministero della Solitudine” cammina cioè su rotaie roventi ma sempre attentamente laterali, e ogni corpo umano in scena contribuisce con la propria storia, appunto, laterale, a sbozzare uno spazio oscuro, che è quello del tema, il buco nero la cui campitura spetta, però, tutta allo spettatore. È a lui che sono lanciate le cinque esche preparate sul palco, perché possa agganciarvi la preda della propria conclusione, se ne ha una. Ed è quasi un paradosso, insomma, perché quel perfetto meccanismo scenico invece di chiudersi in sé stesso chiede fortemente, insistentemente l’intervento di chi guarda.
La semplicità della scena (un periatto che porta, sulle tre facce, tre allusioni ad altrettanti ambienti diversi; un fondale ritagliato in quadranti con led che mimano tubi al neon; qualche elemento mobile) e l’instancabile mutevolezza delle luci (di Luigi Biondi) ospitano le vite di cinque personaggi, tutti vittime della solitudine: Teresa, una cinquantenne scrittrice edificante (Caterina Carpio), sua figlia Alma, che le vive accanto in una inconciliabile altra solitudine (Giulia Mazzarino), un separato che si dà all’apicoltura (Francesco Villano), un uomo, Primo (Emiliano Masala), censore di atrocità e pornografia online, alle prese col rapporto amoroso con una donna/manichino, una solerte impiegata del recentemente istituito (e destinato a vita breve) Ministero della Solitudine (Tania Garribba), cui le persone possono rivolgersi per un percorso a più passi verso la guarigione.
Le storie sono cinque ma, come si anticipava in apertura, oltre al loro incontrarsi nello sviluppo degli avvenimenti, le cinque presenze dei corpi condividono uno stesso spazio, vi abitano anche quando la luce è su un altro di loro, compiono un lavoro di controcanto instancabile, curato per il movimento da Marta Ciappina, che li fa esordire in scena nel silenzio, ciascuno chiuso in un proprio tic motorio, incomunicanti, quasi stralciati dalla partitura di cinque musical diversi. Vi sono, è vero, degli appuntamenti tematici (Primo cancella un’immagine di adolescente che mostra i piedi in rete, e intanto Alma infila uno dei suoi in un lungo calzino; si parla di un reality sul dimagrimento e intanto Teresa svuota il frigo), ma è in generale la scena che procede sempre tutta insieme, ancor più di quanto facesse il precedente “When the rain stops falling“, che “Il Ministero” ricorda per intensità d’atmosfere e per impegno produttivo.
Ma il lavoro di Lacasadargilla non si esaurisce in questa partitura per oggetti, corpi, parole (qualcuno diede una simile definizione della danza, una volta). Alcuni esempi: i momenti di rilassamento dell’energia, che pure non mancano, come la scena del karaoke in cui si ritrovano alcuni personaggi, sono spesso falliti, abbandonati a metà strada, come contatti abortiti; la grande impalcatura di luci sullo sfondo reagisce, al modo delle sinapsi, ai suoni più aggressivi, alle energie sul palco. Ancora, e più precisamente, l’attesa continuamente castrata di chi soffre il dolore della solitudine è riprodotta in modo letterale da un’intro di canzone alla quale anche il pubblico già prepara la gola per cantare l’esordio, ma che ritrova poi troncata di netto, nel buio, come una decapitazione.
Insomma, quel palco così ben concertato non si limita a raccontare, attraverso le sue storie, i ripetuti shock di una mente prostrata dalla sofferenza, ma si dà come un suo correlativo tangibile: quel palco è quella mente, ne è rappresentazione, con i suoi pensieri ricorsivi, con il grafico sinusoidale di speranza e disperazione, con la costante caduta di un desiderio inattingibile di felicità.
La scrittura scenica, dopo aver delineato un contenuto a cui il pubblico deve, come si diceva, prestare il proprio contributo essenziale, ne costruisce con i propri mezzi l’ambiente fisiologico. Una rispondenza oggettiva nella quale i nervi del pubblico tornano nuovamente a galoppare, con la frustrazione di un buio in controtempo, di una musica la cui melodia è presente nel corpo e nella memoria viva di ciascuno, ma che non è mai, mai, consentito di iniziare a cantare.
In scena al Piccolo di Milano ancora oggi e domani.
Il Ministero della Solitudine
uno spettacolo di lacasadargilla
parole di e con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Caterina Dazzi / Alice Palazzi
assistente al disegno luci Omar Scala
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato
durata: 1h 35′
applausi del pubblico: 2’10’’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 30 novembre 2023