Il Misantropo di Shammah celebra il primo mezzo secolo del Franco Parenti

Il Misantropo (ph: Filippo Manzini)
Il Misantropo (ph: Filippo Manzini)

Luca Micheletti guida il carrozzone di Molière contro l’ipocrisia. Con un cast d’alto livello

Ci sono ricorrenze che meritano di essere celebrate. Andrée Ruth Shammah chiude la festa dei primi 50 anni del Franco Parenti di Milano allestendo in Sala Grande un “Misantropo” che è un carrozzone rococò di costumi sgargianti, parrucche, trucco, e soprattutto un cast d’alto livello. È il trionfo del teatro. È la magnificazione di una vita consacrata alla scena.

Con il “Misantropo”, Shammah chiude il cerchio iniziato con Molière nel 1984, quando diresse un caleidoscopico “Malato immaginario”. Al centro di quella commedia c’era la finzione di Argante, vecchio ipocondriaco convinto di catalizzare tutti i mali del mondo, che pertanto si lasciava circuire da medici impietosi.
Protagonista del “Misantropo” è invece un giovane onesto e sincero, che prova ad allontanarsi dall’ambiente aristocratico cui appartiene, che giudica privo di virtù.
Sono due modi distinti (e distanti) di approcciare il teatro: da una parte una finzione talmente smaccata da ingannare persino chi ne è latore; dall’altra, un bisogno d’autenticità altrettanto esasperato, che in un mondo segnato dall’ipocrisia condanna alla solitudine.
Sono questi gli estremi di Molière e del teatro in generale: degli artisti per il loro modo di stare sul palco e di recitare; dei loro amici (a loro volta teatranti) per il loro modo di adulare in pubblico e spesso di censurare in privato; di giornalisti e critici, spesso troppo vicini al mondo che dovrebbero valutare dall’esterno, e quindi inclini alla piaggeria, o viceversa desiderosi di un’autonomia di giudizio foriera di facili attriti.

Dunque il teatro come malattia e ossessione. Oppure come naturalezza volta a condannare ogni forma di vanità.
Il 16 gennaio del 1973, quando Shammah inaugurò l’allora Salone Pier Lombardo con la regia dell’“Ambleto” di Testori, ricorrevano i 300 anni della morte di Molière.
Cinquant’anni dopo, nel “Misantropo”, è evocativa la scena disegnata da Margherita Palli. È la struttura architettonica di una grande sala grigia, retta da due pilastri. Tre aperture sullo sfondo. Un corridoio sul retro. Sulla destra, una vetrata con due porte finestre, vie di fuga verso uno spazio aperto. A sinistra, una porta che si confonde con la parete, anfratto mimetico da cui i personaggi compaiono di sorpresa e scompaiono di soppiatto. Tende rosse davanti e di lato: sono dei sipari che, durante l’azione scenica, saranno ripetutamente aperti, chiusi, violati, lasciando ogni volta scoperto qualcosa. È un rimando alle trame ordite di sbieco, davanti e dietro e ai nostri occhi. Interrogano la nostra capacità d’attenzione, la nostra avvedutezza, la nostra propensione all’autoinganno anche quando avremmo gli elementi per smascherarlo.

Un carosello di personaggi sfila in costumi color pastello attorno al selvatico e umbratile Alceste: è lui il Misantropo al centro della vicenda, vittima di sentimenti nefasti. Splendidamente interpretato da Luca Micheletti, Alceste è un uomo in livrea scura che ha fatto della propria infelicità un vessillo da agitare nella battaglia contro doppiezza e perbenismo.
La sua propensione all’autenticità viene messa in scacco dall’amore. Raramente quando si è innamorati si fanno cose razionali. Alceste ne dà prova innamorandosi di Celimene, donna che vive per sedurre e che incarna ciò che lui detesta. Sempre sorridente, Celimene è interpretata da una centratissima Marina Occhionero: fino alla conclusione, ci resterà il dubbio della sua innocenza, del suo essere vittima di gelosie, invidie e insinuazioni sconsiderate.
Antitetiche le altre due donne in scena: la canterina Eliana (Maria Luisa Zaltron) piena di buoni e spontanei sentimenti; l’infida Orsina (Emilia Scarpati Fanetti) orgogliosa e risoluta, che cerca costantemente di trarre profitto dalla situazione adescando Alceste.

Shammah riesce a non trasformare i personaggi in tipi o macchiette. Ne rende la complessità. Li scolpisce in modo credibile. Confonde così, ripetutamente, lo spettatore.
Fa eccezione l’esilarante cammeo di Corrado d’Elia nei panni dell’ambiguo Oronte, autore di una pessima poesia che ostenta come un capolavoro. Alceste non gli risparmia critiche velenose: il loro battibecco è un saggio d’alta scuola teatrale, davanti al sempre affidabile Angelo Di Genio, qui nei panni di Philinte, mago del compromesso e del quieto vivere.

In quest’allegra e pazza brigata (ne fanno brillantemente parte anche Andrea Soffiantini, Pietro De Pascalis, Matteo Delespaul, Francesco Maisetti, Filippo Lai, Vito Vicino) tutto funziona a orologeria. Avvertiamo l’alchimia di una compagnia amalgamata, che si diverte recitando e valorizza la preziosa traduzione di Valerio Magrelli in settenari incrociati. Sono rime mai cantilenate, declinate in modo da intrecciare dialoghi e legami, oppure da sfilacciarli fino all’allontanamento. I versi scorrono con fluidità affascinante. Dipanano una trama che il pubblico segue con gli occhi sgranati, riconoscendo dinamiche universali, sentimenti quali l’amore, l’odio e la gelosia, il risentimento, la lealtà, la finzione, l’orgoglio.

Qui non c’è il torto o la ragione. Non ci sono personaggi giusti o sbagliati. Siamo tutti Alceste, quando ci arrocchiamo nei fondamentalismi. Siamo Oronte quando ci esibiamo, malati di autocompiacimento. Siamo Philinte quando proviamo a non complicarci la vita. Siamo Celimene quando seduciamo per il gusto di avere gli altri ai nostri piedi.

I costumi di Giovanna Buzzi cristallizzano quest’umanità eterogenea. Alceste è un personaggio rabbuiato, lontano dai colori degli altri protagonisti, ciascuno inquieto verso simulacri di felicità. Di qui il viavai dei movimenti scenici orchestrati da Isa Traversi, tutti lievi, sospesi in una dimensione leggiadra.
È la leggerezza del teatro. È il tempo della nostra essenza felice. È un garbo insito anche nel contrappunto sonoro e nelle luci. Le musiche di Michele Tadini sono raffinate partiture neoclassiche che mirano all’armonia. Le luci sobrie di Fabrizio Ballini avviano le relazioni che attraversano la scena.

Non c’è mai giudizio da parte dell’autore e della regista, quindi neppure da parte del pubblico. Gli stessi protagonisti paiono acquiescenti di fronte al mosaico di varia umanità che mettono in scena.
“La perfetta ragione rifugge dagli estremi e bisogna essere saggi con moderazione”: era il monito di Molière ricordato da Shammah. È l’insegnamento del teatro per chiudere il primo mezzo secolo di Franco Parenti. In un mondo che pare sempre più esasperare i toni mentre, lontano dalla scena, spirano venti di guerra e villanie disposte al crimine, persino dentro il rapporto di coppia.

IL MISANTROPO
di Molière
progetto e collaborazione alla traduzione di Andrée Ruth Shammah e Luca Micheletti
regia Andrée Ruth Shammah
traduzione Valerio Magrelli
con Luca Micheletti e con (in ordine alfabetico) Matteo Delespaul, Pietro De Pascalis, Angelo Di Genio, Filippo Lai, Francesco Maisetti, Marina Occhionero, Emilia Scarpati Fanetti, Andrea Soffiantini, Vito Vicino, Maria Luisa Zaltron
e la partecipazione di Corrado D’Elia
scene Margherita Palli
costumi Giovanna Buzzi
luci Fabrizio Ballini
musiche Michele Tadini
cura del movimento Isa Traversi
produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana
regista assistente Maria Vittoria Bellingeri
assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente scenografo Marco Cristini
seconda assistente scenografa Matilde Casadei
pittore scenografo Santino Croci
direttore di scena Paolo Roda – elettricista Gianni Gajardo
fonico Marco Introini – sarta Alessia Di Meo
truccatrice Sofia Righi – scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da LowCostume in collaborazione con la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni

durata: 2h 30’ più intervallo
applausi: 3’

Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, il 29 novembre 2023

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