Figlio di Autonoe – cadmica campionessa di nevrosi – e dell’apollineo Aristeo, Atteone (irriverente virgulto educato alla corte del centauro Chirone all’arte venatoria) poteva essere poco più che un ragazzo quando, avendo sorpreso Artemide e le sue dame farsi il bagno all’ombra di una selva, venne tramutato dalla dea lunare in cervo, affinché non proferisse verbo alcuno su ciò che aveva osato scorgere. Reso animale grazie al potere di un piccolo getto d’acqua, Atteone si accorse della metamorfosi soltanto in un secondo momento, rimirando la propria immagine riflessa nello specchio liquido di una fonte. Raggiunto poi dalla propria muta di cani, venne da essi inconsapevolmente sbranato (Euripide ci narra invece di un caso di hybris punita, ossia della trasformazione in cervo quale giusto contrappasso per essersi professato cacciatore più abile della faretrata Diana).
Secondo il mito, la carica dei cinquanta e uno, una volta divorato il proprio padroncino, si sarebbe messo alla ricerca dell’illustre estinto, perlustrando l’intera foresta di Gargafia, riempiendola di dolenti latrati. Giunti presso la caverna di Chirone, i mesti segugi avrebbero ricevuto da questi in dono un’effigie di Atteone, riuscendo finalmente ad attenuare il proprio strazio.
Ora, che Valter Malosti – neodirettore artistico della Fondazione TPE – nutra un certo qual gusto per il repêchage di archetipi è dato assodato. Basta dare una rapida scorsa alla sua teatrografia: da “Venere & Adone” allo “Stabat Mater” di Antonio Tarantino, tutto sembra muoversi in tal senso.
Nell’allestimento de “Il Misantropo” di Molière il perno drammaturgico è (o meglio, dovrebbe essere, visto che l’opera resta per sua fortuna corale, come conferma la sequenza ballerina del “tutti in scena”) l’amante atrabilaire,“irascibile e bilioso”, incarnato da Alceste, un misantropo dongiovannesco carico di tragico autobiografismo, che Malosti e Fabrizio Sinisi, che curano l’adattamento, così descrivono nell’intervento “La follia allo specchio”: «Alceste, il protagonista del ‘Misantropo’, è, con ogni probabilità, un pazzo o quantomeno un uomo che si muove ai confini della follia: il sottotitolo dell’opera […] ci dà subito questa dimensione legata all’umor nero, alla melanconia, all’alterazione psicologica. Alceste non è dunque un nervoso intellettuale filosofante, come spesso la tradizione teatrale l’ha rappresentato, ma un antieroe ossessivo, paranoico, incontrollabile, ridicolo suo malgrado. Jacques Lacan, nel suo ‘Discorso sulla causalità psichica’, lo riconosce: Alceste è pazzo “non perché ami una donna che è civetta e lo tradisce, ma perché è preso, nel padiglione dell’Amore, dallo stesso sentimento che guida il ballo in quell’arte dei miraggi in cui trionfa la bella Célimène [unico personaggio a mantenere qui il proprio nome secondo la dizione francese n.d.r.], cioè quel narcisismo degli oziosi che costituisce la struttura psicologica del mondo in tutte le epoche”. Alceste crede di combattere la falsità, ma in realtà la alimenta: pretende la sincerità universale, ma allo stesso tempo ha bisogno che gli ipocriti gli riconoscano la sua superiorità. Il che già di per sé lo mette in scacco».
È forse, diremmo noi, carnefice (Diana) e vittima (Atteone). Ma vittima di chi, esattamente? Di sé stesso, del suo «delirio egotico».
Non si dimentichi che “l’ipocrisia è un vizio alla moda, e tutti i vizi alla moda passano per virtù”. Come si accennava più sopra, difatti, “Don Giovanni” è presente in filigrana dall’inizio alla fine di questa scrittura (in maniera fin troppo esplicitata e francamente limabile) e si materializza ora nel libro rosso su cui campeggia il famigerato titolo che sostiene il microfonato alterco tra regista e prima attrice, ora nel conclusivo interrogativo del Leporello in camicia rossa.
In questo labirinto interiore degno dei migliori psicodrammi, l’agòne tra Alceste/Molière/Malosti e Célimène/Armande Bèjart-M.me Montespan/Anna Della Rosa prende letteralmente forma: lo spazio scenico si trasfigura infatti in una pedana-ring di accecante biancore; tutt’intorno filari di seggiole separate da neon verticali. Sullo sfondo, la raffigurazione traslucida, su uno schermo in biacca e ciano, del mito di Atteone. Scene, luci e costumi sono fra gli elementi più meritorî dello spettacolo: un sentito plauso meritano pertanto Gregorio Zurla, Francesco Dell’Elba e Grazia Materia.
Tutto è vuoto e agli attori non è concesso appiglio: in questo si misura la loro bravura sul palcoscenico (ottimo, in questo senso, il lavoro fatto da Alessio Maria Romano nella cura del movimento). Restare ritti, in piedi, oppure scivolare a terra, combattere e soccombere. Sono esposti là, gli otto istrioni, in “bella mostra”, come bestie di un talent beffardo, compressi in abitini un po’ da guappi un po’ anni Settanta.
L’Arsinoé di Sara Bertelà e l’Oronte di Edoardo Ribatto sono presenze solide; i marchesi di Marcello Spinetta e di Matteo Baiardi hanno grinta da vendere; la voce della Eliante in parrucca di Roberta Lanave si lascerebbe ascoltare per ore; il Flinto di Paolo Giangrasso è giocosamente farsesco; e il viluppo di libera e libertina modernità incarnato da Célimène riesce, nel complesso, a non disperdersi in stereotipi. Ciononostante, tutto appare estremamente episodico: la tensione drammatica riesce soltanto “a spot”, funziona a intermittenza. Come quelle luci che modulano, verso l’inizio, i movimenti di Malosti. Un saliscendi sulle montagne russe, questo Misantropo, che colpisce l’occhio, ma non sempre il cuore.
IL MISANTROPO
uno spettacolo di Valter Malosti
versione italiana e adattamento di Fabrizio Sinisi e Valter Malosti
con Valter Malosti, Anna Della Rosa, Sara Bertelà, Edoardo Ribatto, Roberta Lanave, Paolo Giangrasso, Matteo Baiardi, Marcello Spinetta
luci Francesco Dell’Elba
costumi Grazia Materia
scene Gregorio Zurla
cura del movimento Alessio Maria Romano
drammaturgia Fabrizio Sinisi
assistente alla regia Elena Serra
canzone Bruno De Franceschi
al contrabbasso Furio Di Castri
una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano, LuganoInScena
durata: 1h 40’
applausi del pubblico: 2′ 46”
Visto a Torino, Teatro Astra, l’8 dicembre 2018