Il prezzo di una vita secondo Miller e Popolizio

Popolizio e Orsini ritratti da Marco Caselli Nirmal
Popolizio e Orsini ritratti da Marco Caselli Nirmal

Tutto nella vita ha un prezzo, e tutto si paga, in un modo o nell’altro. Si può farlo subito, nell’immediato, saldando le conseguenze di atti e scelte che ci imbrigliano in determinate situazioni, oppure in un futuro che sembra non debba arrivare mai. Fino al momento in cui si presenta qualcuno, o qualcosa, che rivendica con urgenza la somma pattuita.

Il testo di Arthur Miller, al di là dell’esplicativo titolo, “Il prezzo”, ne oltrepassa i confini per merito di una storia stratificata, intrecciata, che si dipana maestosa e complessa dalla vicenda cardine: quella, detta in soldoni, di un tizio che convoca un broker per valutare la mobilia della casa paterna che sta per essere abbattuta.

“Il prezzo” parla soprattutto delle conseguenze di una crisi, quella tremenda del ’29 (che poi sembra quella che stiamo attraversando, o abbiamo da poco attraversato, a seconda dei punti di vista). E basterebbe questo a evidenziare tutta l’attualità di un testo che non paga per niente dazio ai 48 anni che sono passati dal suo debutto a New York: era il 1968 quando al Morosco Theatre di Broadway riscosse un tale successo da ‘aggiudicarsi’ 429 repliche consecutive.

La Grande Crisi ha sconvolto d’improvviso l’agiata esistenza di due fratelli, Victor (Massimo Popolizio) e Walter (Elia Schilton). Il primo, per provvedere al padre incapace di reagire al cataclisma, ha intrapreso una carriera mediocre in polizia, gettando al vento i suoi talenti e abbandonando gli studi; il secondo, indifferente al gorgo delle responsabilità e menzogne familiari, ha proseguito il percorso universitario ed è diventato un affermato chirurgo.
Il poliziotto è quindi arrivato all’attesa della pensione con alle calcagna una moglie insoddisfatta (Alvia Reale), mezza alcolizzata, che si vergogna della sua divisa, mentre il brillante medico non si fa vedere da sedici anni, perso nella sua vita brillante e di successo.

Si ritroveranno in occasione della vendita dei mobili di famiglia.
Per valutarli Victor si è rivolto ad un vecchio broker (il sempre più sorprendente Umberto Orsini), che da dieci anni non esercita più il mestiere, ma che viene ripescato grazie ad un vecchio elenco telefonico.
Da qui la vicenda precipita nei meandri dolorosi, atroci e amarissimi di una famiglia in cui non detti e rancori mai sopiti scorrono carsici in attesa di riemergere, e dove il confine tra verità e menzogna sta forse tutto nei punti di vista. L’ironia della prima parte lascia così il posto all’amarezza.

Massimo Popolizio, grazie anche ad una mimica efficacissima, è bravissimo nel delineare in profondità una figura tragicomica, foriera suo malgrado di una verità crudele come solo la vita sa testimoniare, devastata dal prezzo che ha scelto di pagare, eppure incapace di risollevarsi, nonostante se ne presenti la possibilità.

Orsini è praticamente perfetto. Regala un’interpretazione felice e mai sopra le righe, vestendo i panni di un ebreo tratteggiato nella sua bramosia di affari, che poi altro non è che bramosia di vita. E regala al pubblico anche un balletto finale, che sta lì come a dirci che, quando il destino esplode, distrugge, muta e modifica, c’è chi paga e c’è chi guadagna. Tutto qui, forse. Senza troppe domande. Giobbe docet.

Bravi anche la Reale e Schilton, ma davanti alla prova degli altri due fanno la fine degli zirconi affiancati ai brillanti. E questo detto senza cattiveria.

La regia di Popolizio è impeccabile, niente è lasciato al caso, tutto è calcolato e misurato fin nei minimi dettagli. Mentre le luci di Pasquale Mauri convincono un po’ meno.

È una storia americana, con personaggi americani. Ma per certi versi, questi personaggi che sembrano uscire da certe pellicole pomeridiane che andavano in onda nelle estati dei canali Rai, vivono drammi e affrontano problematiche per niente a noi distanti per tempo e spazio, riscontrabili in interni contemporanei nostrani, – oppure greci se preferite -, tanto per parlare di due nazioni dove la crisi ha picchiato duro, e non solo a livello lavorativo.

Eppure, nonostante tutta questa bravura, alla fine, di questa pietanza ricca, gustosa e piena di sapori, sembra rimanere qualcosa di indigesto.
Non sappiamo se prendercela col fattore lunghezza, con la minuziosa esplicazione dei “caratteri”, con la bravura a tratti leziosa dei protagonisti, con un tipo di teatro un po’ troppo classicheggiante o, per dirla in modo più esplicito, “d’abbonamento”.

È un po’ come le trattorie toscane, che a forza di essere tipiche hanno finito per essere tutte uguali. Cosicché, dopo il calore accogliente della prima che visitiamo, alla settima finisce che ci annoiamo e rimpiangiamo il circolino di turno, dove la pizza magari è troppo alta e forse cruda, ma almeno rappresenta un diversivo.
Dal 31 marzo al 3 aprile all’Arena del Sole di Bologna.

IL PREZZO
di Arthur Miller
traduzione Masolino d’Amico
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale, Elia Schilton
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Pasquale Mari
direzione artistica Umberto Orsini
regia Massimo Popolizio
produzione Compagnia Orsini

durata: 1h 41′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Pontedera, Teatro Era – CSRT, il 16 marzo 2016

stars-3

0 replies on “Il prezzo di una vita secondo Miller e Popolizio”