BabyGang, Band à Part e Sanpapié. Tre compagnie a Processo di fronte a Kafka

Il processo di Kafka
Il processo di Kafka
Il processo (photo: Andrea Chesi)

Per le residenze che erano entrate nel progetto di rete del circuito Etre, promosso in Lombardia dalla Fondazione Cariplo, la fine del triennio si approssima, e con esso anche l’impegno alla produzione di un lavoro conclusivo. E’ quanto sta succedendo, ad esempio, alle compagnie che erano in residenza allo Spazio MIL di Sesto San Giovanni, che hanno presentato in questi giorni un esito congiunto, frutto di tre anni di confronti e sperimentazioni.

Piuttosto che realizzare tre spettacoli diversi, uno per ciascuna delle tre compagnie all’interno della residenza PUL, ovvero BabyGang, Band à Part e Sanpapié, l’idea è stata quella di proporre un modello di coproduzione inedito, fondato non sulla suddivisione dei mezzi, ma sul mescolarsi delle competenze e delle poetiche: di fatto provare ad azzerare la struttura delle compagnie di partenza e creare uno spettacolo come se si trattasse di un’unica grande compagnia, quella appunto in residenza nel bellissimo spazio post industriale del MIL di Sesto, alle porte di Milano.

Oggetto dell’indagine “Il Processo” di Kafka. A maggio, c’era stata una prima uscita sotto forma di studio, ma adesso si è arrivati ad una definizione più compatta. Il postulato “ideologico” che sottostà alla creazione è che l’accusa mossa a K. nel celebre romanzo sia in realtà impersonificata da K. stesso, dalla sua incapacità di aprire la porta della Giustizia a lui destinata, facendo venir meno il sentire assurdo del celebre libro, per accendere una luce indagatrice su “l’esistenza dispersa e priva di consapevolezza che tanti oggi attraversano”.

Lo stimolo a lavorare su Kafka era abbastanza naturale in ragione delle ultime indagini che le singole compagnie avevano svolto, concentrate sull’interazione fra soggetto e società.
La trama proposta è grosso modo quella de “Il Processo”, con un grigio impiegato che Il Sistema, La Giustizia, condannano apparentemente senza motivo. L’uomo cadrà progressivamente prigioniero dei suoi stessi dubbi e delle sue debolezze, uguali a quelle del mondo di sorci che lo circonda, tutti diversi e tutti uguali, resi attraverso spersonificanti maschere bianche (su cui occorre lavorare per migliorare l’amplificazione vocale), che tutti gli attori indossano per gran parte dello spettacolo, in particolar modo per le azioni collettive. Tutti tranne il protagonista, che vuole preservare una sua diversa identità, salvo poi trovarsi colpevole “causa sui”, nella lettura che le tre compagnie vogliono restituirci.

L’atmosfera generale è ovviamente buia, e resa con pochissimo: alcune valigie flycase a rotelle che trasformano, in un batter d’occhio, una stanza da letto in un ufficio, e poi in un tribunale e in una prigione.
L’allestimento trova le sue forze e i suoi spazi di miglioramento nell’uso dei codici espressivi differenti tipici delle tre compagnie, dalla danza alla musica, fino alla prosa, fusi in un inedito amalgama che mira ad un’unitarietà, ancora però da raggiungere.

A vederla dall’esterno pare un’operazione che ha giovato comunque alla creatività dei vari gruppi, moderando le pulsioni più estreme e autoreferenziali, per spingere verso la ricerca di un’essenza, di un linguaggio che appare più incisivo e maturo di tutti quelli di provenienza, a dimostrazione che il confronto e la mescolanza fanno
bene all’arte.
Si tratta ora, con riferimento allo spettacolo e a future esperienze, se non unitarie quantomeno di dialogo fra le tre realtà, di ragionare sulla grammatica di questo nuovo linguaggio, che non può e non deve essere una giustapposizione delle grammatiche dei linguaggi di provenienza.

Ancora troppo chiari sono, nella messa in scena, segni espliciti riconducibili a sensibilità squadrate e non levigate del tutto dal lavoro comune, dal rotolare dei ciottoli nel greto del fiume condiviso: le scene con le dita dell’addetta del tribunale nella bocca dell’impiegato e i movimenti a-là-Sanpapiè, o certe scene di massa chiaramente targate De la Calle, o altri minimalismi figli dell’estetica di Band à part, restano chiaramente distinguibili come segni delle identità di appartenenza, che appesantiscono il lavoro e fanno capire come a volte le intenzioni di andare oltre se stessi si infrangano contro la volontà di affermare e lasciare un proprio segno identificante.

Lo spettacolo ha alcune idee buone, che con il suo proseguire perdono però di efficacia, inducendo una ripetitività, se non modulare, quantomeno sostanziale, dell’apparato sistemico di codici e simboli, che finisce per non generare più quello spirito di rottura, né quel clima di oppressione che un’opera come “Il Processo” deve restituire.
In generale serve un po’ meno di tutto, per avere un po’ più di essenzialità.

Bene i giovani interpreti, con qualche ruolo da migliorare, essenzialmente per chi, venendo da un teatro d’immagine o da teatro-danza si trova, anche solo per poche battute, a dover recitare.
In questo, inutile dire, manca un po’ di scuola, ma non è mai troppo tardi per nessuno che davvero voglia fare questo un mestiere, e in fondo la commistione e lo sforzo verso esperienze e linguaggi diversi da quelli solitamente praticati, a questo servono.

Un lavoro maggiore necessita poi l’apparato scenico: lo spazio del MIL è grande, e proprio per questo favorisce una spinta centrifuga che mal si concilia con il sentimento di oppressione e claustrofobia che l’opera intende trasmettere. Su questo le compagnie hanno operato pochissime se non nessuna scelta, salvo qualche uso degli spazi ai lati e dietro la platea, che non fanno però vivere allo spettatore una sensazione, per così dire, di ‘dolby surround emotivo’, piuttosto quella di tutto ciò che avrebbe potuto esser fatto sullo spazio e non è stato ancora approfondito.

IL PROCESSO
dal romanzo di Franz Kafka
un progetto di BabyGang | Sanpapié | Band à Part
regia: Paolo Giorgio
coreografia/movimento scenico: Lara Guidetti
testi: Carolina De La Calle Casanova e Sarah Chiarcos
con: Federico Bonaconza, Linda Caridi, Francesca Debri, Mario Fedeli, Dario Merlini, Francesco Pacelli, Valentina Scuderi e Alessandro Vasta
musiche originali: Marcello Gori
assistente alla regia: Cristina Belgioioso
per Totoro allestimenti maschere realizzate da Federica Ponissi e Giada Masi
coordinamento produzione: Josephine Magliozzi
organizzazione: Sara Carmagnola
promozione: Silvia Pinto
amministrazione: Fabio Ferretti
contabilità: Federica Lissoni
ufficio stampa: Ecate – Maddalena Peluso
comunicazione visiva: Dario Serio
all’interno del Progetto PUL – Compagnie in Residenza
in collaborazione con Tieffe – Teatro Stabile d’Innovazione
con il patrocinio della Città di Sesto San Giovanni
con il contributo di Être un progetto di Fondazione Cariplo
K. Il Processo è parte di Rete delle Residenze di Associazione Être

Visto a Sesto San Giovanni, Spazio Mil, il 30 novembre 2011

0 replies on “BabyGang, Band à Part e Sanpapié. Tre compagnie a Processo di fronte a Kafka”