Il desiderio della preghiera esce fuori dalle mura delle religioni, sfonda le porte del credo, della fede, irrompe nella scena per liberare il cuore, l’animo di un personaggio tormentato dalla propria esistenza e dalla coscienza della caducità umana. “Desidero pregare, senza credere a qualcuno che mi ascolti, non è questo il mio bisogno, non è questa la mia meta”.
Claudia Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio, nello spettacolo “Il Regno profondo”, rappresentato all’interno della rassegna Istantanee al Kollatino Underground di Roma, sceglie la parola, la forma di “sermone drammatico”, per riflettere sulla vita e sulla morte con ironia e sarcasmo spiazzanti. Pregare un Dio che non c’è, pregare la preghiera stessa, pregare per confessare il sé di fronte a se stessi, per racchiudere in un’ora il senso di una vita che vuole essere unica e irripetibile.
“Non farmi rinascere in un’altra vita, te ne prego” ripete il personaggio in scena, seduto di fronte ad una scrivania imponente, unico elemento scenografico dello spettacolo. Un uomo parla della sua vita come se fosse l’emblema di tutte le vite umane, scongiura un Dio che non crede esistente, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Nessuno, implora di non fargli ripetere un’altra esistenza, perché la vita umana è una lotta per la sopravvivenza, contro freddo, fame, caldo, dolori, malattie e carestie, guerre, odi, solitudini.
La preghiera vuole ricordare la difficoltà della sopravvivenza per l’essere umano, i dolori ai quali fin dalla nascita è esposto, parla della condizione di schiavitù di molte persone in parti diverse del mondo, dello sfruttamento e della brutalità ai quali l’uomo non può ribellarsi. Il personaggio dice: “Confesso il mio terrore di essere schiavo […]. Non vorrei trovarmi nella condizione di desiderare il suicidio e non poterlo commettere”.
Tematiche filosoficamente complesse, quelle della vita e della morte, del trapasso e della rinascita, dell’inettitudine umana di fronte al divino, della potenza della mente che costruisce le proprie vie di fuga dal dolore e dalla paura dell’inevitabile, tra le quali l’idea stessa del Dio risanatore, del Dio al quale rimettere i propri peccati, il Dio giudice e giustiziere.
Di idea di Dio si tratta, un Dio antropomorfizzato, unico Dio che l’essere umano può immaginare, l’unico che può concepire, cioè uguale a se stesso, con un corpo e una mente del tutto simili alla sua, con delle emozioni identiche alle sue. A lui si rivolge l’uomo in scena, mosso dall’ammaliante bravura della Castellucci che, mobile nell’immobilità della posizione scelta, respira ogni parola, suona ogni frase e canta il suo pensiero, rubando più di una risata al suo pubblico.
Non ci sono impalcature e filtri in questo dialogo con un Dio che non c’è, in questa conversazione dell’uomo con il suo stesso Io. Sviscerante riflessione sui propri limiti e forze, la parola si fa lama tagliente e beffarda, pungente e impavida, guarda dritto negli occhi il potere supremo chiamato Vita, che come un anziano astante si distrae, al quale bisogna parlare con chiarezza, ripetergli bene ciò che si vuole affermare: “So che sei duro d’orecchi”, rammenta il personaggio ribadendo la sua richiesta.
Questa parità è la vera grande dichiarazione. Come per dire: se io (essere umano) ti ho creato, tu (divinità) non puoi essere diverso da come io possa immaginare; tu sei me, come io sono te.
La Castellucci porta sulla scena concetti filosofici degni di un dibattito tra premi Nobel, con la semplicità e la grandissima leggibilità che solo i grandi sanno realizzare.
Il Regno Profondo
sermone drammatico scritto e diretto da Claudia Castellucci
suono: Filippo Tappi
produzione: Societas Raffaello Sanzio 2009
durata: 45′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Kollatino Underground, il 6 maggio 2011