Appare evidente che l’utilizzo del teatro come strumento terapeutico apre a un panorama vario, diversificato, eppure controverso lì dove la parola “cura” assume un significato che può tutto, e che forse non incontra l’intento dell’artista nel mettere “semplicemente” a disposizione le proprie competenze teatrali.
Durante il convegno, ricco di invitati, sono quindi stati toccati diversi punti di vista: da quello filosofico e letterario, a quello più scientifico, terapeutico, sociale ed esperienziale.
Sia che si parli di teatro terapeutico, che di terapia a mediazione teatrale o volendo anche di psicodramma e drammaterapia; sia che l’effetto benefico sia rivolto ad attori e spettatori che a malati fisici, mentali, a disabili o a disadattati, l’utilità sociale, l’efficacia socio-pedagogica-terapeutica – ha evidenziato Marco De Marinis – è direttamente proporzionale alle competenze artigianali e alla qualità artistica messa in gioco e da essa fortemente dipende.
Questo purché non prenda il sopravvento la bellezza vista in chiave consumistica, se vogliamo autoreferenziale, spettacolare, che in tal caso condurrebbe a un teatro di tipo patogeno: un teatro che può far male.
Su questo aspetto ha posto l’accento anche Roberto Rinaldi portando sia l’occhio esterno del critico ma anche la sua esperienza di psicologo, che utilizza il teatro come ulteriore mezzo di lavoro con giovani tossicodipendenti.
Il pericolo di cronicizzare una malattia o una diversità, come quella di volerla annullare a tutti i costi per riportare uno stato apparente di “normalità”, restituisce un’ambivalenza dell’aspetto terapeutico del teatro che deve essere tenuta in estrema considerazione da chi lo utilizza in certi ambiti.
Più che sull’effetto quindi a cui si potrebbe facilmente pensare quando si parla di teatro che cura, quello che è emerso nuovamente dai vari interventi, è l’importanza del processo che viene messo in moto: un processo trasformativo. Oggi confermato dagli studi delle neuroscienze e dalla scoperta dei neuroni a specchio coinvolti direttamente nel processo empatico, che si sviluppa non solo nello stato di presenza di un attore davanti al suo pubblico, ma anche quando entra in campo l’immaginazione di ciò che non esiste o che potrebbe esistere.
Lo spettatore mette in moto un processo biofisico, prova le stesse esperienze emotive che prova il personaggio.
Ma se lo spettatore ‘fa’ quello che l’attore esegue in scena, questo rimanda anche ad un problema etico, alla responsabilità dell’attore e a quello che si diceva prima sulla possibilità patogena del teatro.
«Il teatro può far bene ma può far anche male» ha suggerito non a caso Jean Marie Pradier in videoconferenza da Parigi.
Il teatro quindi non è movimento fine a se stesso ma è azione, come ha ben ricordato nel suo intervento Mario Biagini, presente a Vicenza con il gruppo Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowsky and Thomas Richards.
Il processo teatrale permette così di recuperare molteplici aspetti della comunicazione personale e interpersonale: voce, presenza del corpo, socialità, affettività. Sulla potenzialità catartica, curativa e perciò creativa della voce ha portato l’attenzione invece Jonathan Hart Makwai, del Roy Hart Theatre, in collegamento da New York. «La voce è un ponte di collegamento tra conscio e inconscio». É un processo interno che stimola e trasforma un processo esterno. «Quando la voce incontra un’emozione inconscia – racconta Makwai – cambia l’ascolto dello spettatore, si crea un momento di verità profonda; e nell’incontro con una verità c’è la possibilità di liberare energia creativa».
Per i grandi maestri come Jerzi Grotowski e Eugenio Barba il teatro è soprattutto un mezzo per l’esplorazione di se stessi, un modo per tuffarsi dentro la propria realtà personale. «Nel preciso momento che avviene il teatro, l’attore conosce se stesso e il pubblico si specchia in lui per conoscere se stesso».
Ma se dallo specchio si passa alla finestra, superando una visione narcisistica che la psicanalisi ha nel tempo convalidato, come ha suggerito il critico Andrea Porcheddu portando l’esempio delle occupazioni come forma di teatro terapeutico, in particolare quella del Teatro Valle di Roma, l’attenzione si sposta dal soggetto alla comunità; dove la “cura” sta nel desiderio condiviso, in una comunità che non subisce le scelte ma le fa insieme, e in questo modo si rende trasformativa in un senso più ampio, sociopolitico.