A Napoli due debutti importanti, quelli di Sulayman Al-Bassam e di Marcela Serli, e il nuovo lavoro di Cuocolo/Bosetti ambientato al Museo di Capodimonte
Il primo weekend di luglio nell’impegnativo contesto del Campania Teatro Festival 2022 è una triplice riflessione sull’oggi a partire dal passato, in alcuni casi una discussione sull’Occidente della tradizione in forma di opere, sopra il grande deposito che continua a pulsare nelle nostre vite e a interrogarle.
IMEDEA
Cominciando dalla fine: a chiudere la tre giorni lo spettacolo probabilmente più atteso, quell’Imedea di Sulayman Al-Bassam, regista e drammaturgo arabo del Kuwait, che rilegge il mito della straniera per eccellenza (portata in scena da Hala Omran), la selvaggia strega capace di tutto, tradita, vendicativa, che per amore di Giasone ha lasciato la Colchide e rallentato le navi del padre inseguitore smembrando il corpo del fratello Absirto.
Quale arabo emigrato in Francia non si riconoscerebbe nel personaggio di questa Medea, portavoce, per Al-Bassam, di tutti gli estirpati, di tutti i rinchiusi nei centri di accoglienza in attesa di (possibili) documenti d’asilo, che non hanno altra lingua per dire “no” alla violenza che la violenza? Lo stesso scandaloso tremito che doveva scuotere i cittadini ateniesi o i lettori della truculenta opera senechiana di fronte alla madre che sgozza i propri nati – tra i due autori si muove il percorso di Al-Bassam, uno studio attentamente testuale saprebbe riconoscere l’opera compiuta sui due testi, dimostrarla –, quello stesso tremito lo avverte oggi il pubblico del Politeama, allorché l’autore-regista, anche in scena nel ruolo di sé stesso, di Giasone e di Creonte, va dritto al punto: «Medea è il Bataclan, è Charlie Hebdo!», forzando una porta finora sbarrata dalla censura del nostro immaginario.
Così l’eterno dilemma della violenza della giusta rivalsa verso un’ingiustizia subisce una nuova attualizzazione, in un lavoro intessuto sul telaio acustico, elettronico, di musica concreta, costruito in scena da Two or the dragon, il duo composto da Abed Kobeissy e Ali Hout.
E infatti se per il drammaturgo il linguaggio dell’oppressore non è più quello regale delle leggi o del capriccio, ma quello dei social network che rimescolano a piacimento la realtà, egli sceglie per i momenti più riusciti della sua “Imedea” quello del melologo, dove la voce e la musica si ritrovano accoppiati, davvero tragicamente compenetrati verso la pietà e il terrore della catastrofe.
Il lavoro di Al-Bassam si rivela a conti fatti una splendida opera di drammaturgia testuale, in cui la regia è a essa docilmente e convenientemente sottoposta. Un esperimento di teatro letterario, in cui alla lingua (tre quelle in scena, più qualche battuta in italiano) si torna a restituire fiducia poetica e politica.
EXHIBITION
Poche ore prima, apriva il weekend “Exhibition” di Cuocolo/Bosetti, un percorso in prima persona per le sale Farnese del Museo di Capodimonte. Quell’io-Roberta Bosetti, sprofondato in una trance esistenziale che non consente altri movimenti se non quelli che sgorgano da un pensiero fluente, analogico, venato dalla solitudine, dalla nostalgia, quell’io si aggira tra i quadri, ingaggiandovi una lotta in cui lo spettatore scapita: restare indietro, catturato da un Botticelli, da un Tiziano o seguire il filo dei passi/pensieri di lei, che sembrano prescinderne?
Insieme la sua voce si aggrappa all’opera d’arte come oggetto mentale consolatorio, enumerandone alcune tra le presenti, insieme alle assenti in un’ecumenica galleria personale. Il quadro visto e tenuto a mente, il quadro come garanzia di persistenza, contro un soggetto e ogni altra cosa al mondo tesa a sfumare, gli indirizzi delle persone rimaste incagliate nelle secche nostro passato, i numeri di telefono riassegnati a nuovi utenti.
Ecco, mentre nel precedente “The walk” sciamava per le strade, qui una nostalgia autunnale e piovigginosa, non necessariamente da interno, caratterizzata dall’horror vacui del silenzio («Ho detto troppo? Non ho detto abbastanza» continua a chiedersi la camminatrice), penetra in una Capodimonte rovente, si lascia tentare dalla critica sociale e subito si arrende alla dichiarazione di quell’io intimo ma mai angusto o claustrofobico, dichiarazione di sconfitta e speranza, con Bernhard: «Non c’è nient’altro che ci salvi se non quest’arte maledetta e funesta».
LE TROIANE
All’ingresso del pubblico (Cortile di Capodimonte) un conferenziere e il suo assistente attendono da dietro un tavolo: dovrebbe essere in corso, e sconta un pesante ritardo, una lezione sul tema risibile de “Il problema della donna”? (si noti l’ambiguità del genitivo). L’attesa è lunga, il conferenziere borbotta, risulta incapace di dire alcunché di sensato, richiama chi usa il cellulare, tenta di dare ordine a una serie di banalità così vaghe da risultare inafferrabili.
Dopo un lungo quarto d’ora, francamente (programmaticamente?) insostenibile, altre figure, creature accademiche, tutti maschi, fanno il loro scalcinato ingresso sul palco, rivendicando una maggiore competenza sul tema, giungendo a evocare la farsa con l’entrata di una periclitante cariatide professorale, con canizie, flebo e relativa asta.
In questo caos volgare di reciproca strumentale sopraffazione, l’attenzione si concentra su una figura luminosa, l’unica che possa vantare una visione sgombra, candida: una bambina di dodici anni: «Sono Marcela Serli – dice, provocando il primo spiazzamento – regista di questo spettacolo».
Sarà lei, in qualità di coro tra un atto e un altro della riscrittura della tragedia euripidea, “Le Troiane, la guerra e i maschi” (al suo debutto assoluto), a punteggiare con brevi lezioni, apertamente didascaliche, le tematiche femministe derivabili dalle scene appena rappresentate. Quello a cui abbiamo assistito era un prologo.
Ma la farsa volgare, il teatro nel teatro, il teatro didattico, sono solo alcuni degli ingredienti che entrano nel lavoro, una riscrittura della tragedia euripidea, e che contribuiscono da un lato a esigere allo spettatore una indefessa ridefinizione di postura, dall’altro danno un’idea di discontinuità che la trama a tutti nota non sempre riesce a raccogliere e richiamare in sé.
La grande cultura e scaltrezza teatrale di Serli (la vera regista, non la dodicenne, è anche lei in scena con un doppio ruolo) le permettono di maneggiare queste armi, altrove incongruenti, grazie a una gestione ammirevole del palco, quasi sempre vuoto di scenografia, su cui campeggia una ciurma di attrici qualitativamente disomogenea ma tenuta insieme in un lavoro corale e accogliente, a un uso efficace delle musiche e a una scelta di costumi discutibile ma coerente.
Ecco dunque il continuo andirivieni fra teatro drammatico ed epico, con allocuzioni dirette, esplicite didascalie («Lo vedi questo palo? – riferendosi a un tubo che svetta in mezzo al palco e disturba le videoproiezioni – Darà fastidio per tutto il tempo!»); ecco il pungolo accorato che non si fa scrupolo di affondare nel drammatico più spinto, ecco l’autobiografismo (basta poggiare gli occhi sulle attrici per capire quanto quello di Serli sia teatro di corpi).
Ma in che misura questa molteplicità, per quanto efficace, “contiene” qualcosa, in che misura la nasconde?
La ricerca del “cuore” vero dello spettacolo non è così semplice. Si potrebbe dire che quel “cuore” è veramente nei corpi, nella figura divenuta austera di Eva Robin’s, passata di diritto all’allure della grande diva (Ecuba, «il mio primo ruolo da vecia», ammette), nella bambina, nel corpo di Luce Santambrogio (Cassandra), in quello di Ana Facchini (Andromaca). O è nell’acme del monologo di quest’ultima come sulla condanna a morte di Astianatte, un pezzo che è un squarcio a freddo, devastante di attorialità drammatica e immedesimazione, che strappa a viva forza le lacrime a chiunque abbia occhi, orecchie, respiri? O nella fredda struttura a lezioni/exempla, nel generoso impulso comunicativo di una precisa posizione femminista attraverso “ludendo docere” (una delle Troiane prigioniere porta inanellati alla propria catena di schiava un teoria di ciondoli in forma di di bambole di neonati, insieme cadaveri e palle al piede)? O infine nella tragicità restituita a pieno nell’ultimo quadro, con il processo a Elena (Ira Fronten)?
Se badiamo al contenuto, il cuore è nella “morale” finale, più pallida del rutilante quadro messo in piedi per generarla, cioè che le femmine di Ilio non diventano schiave solamente nel momento in cui sono sconfitti i propri uomini, ma lo erano sempre state, dei Troiani per l’appunto. Ma ben oltre l’acuta sentenza riassuntiva, tutto ciò trova il proprio tratto unificante precisamente in quella disarmonica, non convenzionale, non equilibrata apertura all’altro da sé, quell’amorosa furia del diverso anche negli strumenti rappresentativi, nella forma, oltre che nei corpi e nei generi. Questa unità, l’esperimento di “Le Troiane” la trova in ciò che potremmo chiamare brillante diagonalità, dimostrazione effettiva di queerness teatrale.
IMEDEA
drammaturgia e regia sulayman al-bassam
con hala omran, sulayman al-bassam, oussama jamei
scene e disegno luci eric soyer
musiche two or the dragon (abed kobeissy & ali hout)
sound engineer mathilde dahousi
assistente disegno luci saad samir
sottotitoli wafa’a al faraheen
consulenza costumi dr. abdullah al awadhi
testi delle canzoni arabe abdullah issa alsarhan
amministrazione saif al areef
assistente di produzione mohammad jawad
manager di produzione oussama jamei
comunicazione e design amen okja – blits
produzione sabab theatre
coproduzione sabab, fondazione campania dei festival – campania teatro festival, afac-the arab fund for arts and culture
Debutto europeo
durata 1h 30′
applausi del pubblico: 1′ 30”
EXHIBITION
di cuocolo/bosetti
con roberta bosetti
regia renato cuocolo
curatrice gaia morrione
produzione teatro di dioniso, nuovi paesaggi urbani, cuocolo/bosetti
durata: 1h
applausi non previsti
LE TROIANE, LA GUERRA E I MASCHI
UNA RE-VISIONE NECESSARIA
drammaturgia e regia marcela serli
da le troiane di euripide
con eva robin’s, noemi bresciani, ana facchini, ira fronten, luce santambrogio, marcela serli, caterina bonetti
embodiment noemi bresciani
assistente alla drammaturgia giulia trivero
costumi a cura dell’accademia di belle arti – santa santa giulia di brescia antonio spada, simona venkova
testimonə femministə sergia adamo, luce santambrogio, silvia torri
consulente grecista marcella farioli
tra le musiche “acqua”, “cordasasso”, “suoni e rumori” di eva de adamo, “troiane rosemary” di duperdu
voce paolo fagiolo
cura tecnica michele pegan
produzione fondazione campania dei festival – teatro nazionale di genova – teatro nazionale di nova gorica (slovenia), fattoria vittadini
in collaborazione con olinda, fondazione luzzati – teatro della tosse onlus-, compagnia teatrale atopos, centro di studi di genere dell’università di trieste, artisti associati di gorizia
ringraziamo maria spazzi, giada masi, daniel malalan, valentina repini e il teatro stabile sloveno di trieste
Debutto assoluto
durata: 1h 15”
applausi del pubblico: 2′ 30”
Visti a Napoli, Campania Teatro Festival, l’1-3 luglio 2022