Un giardino di una casa colonica. Segni di abbandono e stranezze hitchcockiane.
Violet Venable accoglie il Dr. John Cukrowicz. L’estate prima, improvvisamente, ha perso il figlio a cui era morbosamente legata e con cui compiva continui viaggi, per assecondarne il carattere aperto, socievole, ma strano e problematico.
Sebastian invece muore nell’unico viaggio in cui Violet non aveva potuto accompagnarlo. In quell’occasione era stata la cugina Catherine a viaggiare con il giovane artista e scrittore: un viaggio in Spagna concluso con la sua tragica e misteriosa morte.
La ragazza, rimasta sotto choc, va a lungo in cura in ospedali psichiatrici e la madre del ragazzo, temendo che Catherine, riprendendosi, possa fare rivelazioni che mettano in cattiva luce la figura del figlio adorato, arriva a pensare alla lobotomia, di cui il giovane dottore è esperto.
La scena: niente avviene fuori di qui, ma tutto è avvenuto fuori di qui, come i suoni striduli che si odono, di uccelli venuti da altri sistemi naturali, o come la pianta carnivora, che resta spettatrice silenziosa di tutto ciò che avviene.
Le scene di Carlo Sala sono di immanente potenza: una villa liberty in semi abbandono, edere altissime e altra vegetazione che pare prendere il sopravvento nell’abbandono dell’anima della padrona di casa. Se il giardino è emblema di uno stato dell’essere, il suo stato di trascuratezza rivela, e al contempo nasconde agli occhi, i segreti, le manie, i fingimenti.
I costumi di Ferdinando Bruni aggiungono al tutto un tocco di realismo cinematografico, alludendo, senza mai che vi sia alcun paragone esplicito, al celebre film diretto da Joseph L. Mankiewicz, nel quale recitarono Elizabeth Taylor (Catharine), Katharine Hepburn (Violet) e Montgomery Clift (il dottore).
La regia: Elio de Capitani sceglie di far precipitare la soluzione del testo di Tennessee Williams in un unico liquido ambiente, questa sorta di giardino decadente in cui si incrociano i destini di famiglia, i piccoli perbenismi, le morbosità affettive. Un thriller psicologico, che ruota intorno a pochissimi elementi, e dunque, in primis, agli attori e alla regia.
A cento anni dalla nascita del drammaturgo americano che così bene descrisse le manie di quella borghesia che usciva dalla Grande Depressione e dalle guerre, una classe sociale al cui interno si annidavano i vizi di un intero sistema economico e di valori, l’Elfo ha voluto riproporre non solo l’”Improvvisamente” ma anche, per un numero di date più ridotte tra fine maggio e inizio giugno, uno studio su “La discesa di Orfeo“, testo che racconta dell’emarginazione di un’artista dalla sua piccola comunità.
In “Improvvisamente” De Capitani riesce ad imprimere alla pièce un ritmo straordinario, facendo scorrere le quasi due ore in un battito, e forse non vi sarebbe nemmeno bisogno di sottolineare, come invece sceglie di fare, particolari achmè emotivi (spesso abbinati a stridenti flash sonori, come a richiamare giochi perversi della mente), perché il metronomo batte fisso sull’intensamente rapido. Tanto immobile sembra questo luogo, tanto veloce lo scorrere degli eventi.
Gli attori: il cast è quello del teatro meneghino, con alcuni degli attori che sono la storia e il presente del gruppo di attori dell’Elfo: Cristina Crippa (Violet), Elena Russo Arman (Catharine), Cristian Giammarini (il dottore), Corinna Agustoni, Edoardo Ribatto e Sara Borsarelli.
Tranne che per i pochi “eccessi teatrali” scelti dalla regia, da leggere nell’ottica di restituire l’immagine di un universo strano e straniante, le interpretazioni che raccogliamo sono equilibrate e di primissimo livello. Una Elena Russo Arman in formato Ubu dà al personaggio della ragazza un’insana vena malinconica, lo colora di istinto e rabbia, pazzia e discontinuità, consapevolezza e deliquio. E’ lei che svelerà piano piano i torbidi retroscena che Williams volle raccontare in questa drammaturgia: il cugino aveva chiesto infatti a Catharine di accompagnarlo in Spagna non perché innamorato di lei, ma per servirsene come di un’esca per attrarre compagnie maschili. Come la pianta carnivora che campeggia in giardino, il ragazzo aveva creato un sistema di esche di cui nutrirsi, da succhiare. Ma quelle stesse compagnie saranno responsabili della tragica morte del ragazzo.
La pazzia finale della madre di Sebastian, nella versione teatrale di De Capitani, quasi sfuma, per non spostare il fulcro dal personaggio della ragazza, che così bene funge da calamita e legante, sul palco della Sala Shakespeare del nuovo Elfo Puccini.
E’ questa la scelta della regia, ed è una scelta che viene premiata, perché tutto quello che resta attorno mantiene un misurato equilibrio, una capacità grande di supportare, senza mai intrudere nelle dinamiche precise di un buon lavoro, che sicuramente girerà, e che riporta la prosa in una scena e in una recitazione di ispirazione naturalistica. O almeno è ciò che sembra. Perché, come nella drammaturgia così nello spettacolo, è proprio dietro la parvenza che si annida l’inganno della percezione, il quaderno bianco tutto da scrivere che Sebastian aveva lasciato a testimoniare quell’estate.
Improvvisamente, l’estate scorsa
di Tennessee Williams
traduzione: Masolino D’Amico
regia: Elio De Capitani
scene: Carlo Sala
costumi: Ferdinando Bruni
con: Cristina Crippa, Elena Russo Arman, Cristian Giammarini, Corinna Agustoni, Edoardo Ribatto, Sara Borsarelli
produzione: Teatridithalia
durata: 1h 50′
applausi del pubblico: 2′ 43”
Visto a Milano, Teatro dell’Elfo, il 29 maggio 2011