Lo spettacolo, a offerta libera, è alla sua prima prova aperta al pubblico (e infatti non esistono ancora foto per farvelo immaginare), comincia intorno alle 18.30 e dura un’ora; il testo è fedele all’originale, giusto l’ultima scena – quella in cui i coniugi Martin si ritrovano nei panni iniziali dei coniugi Smith – viene tagliata.
Il pubblico aumenta man mano, e ha il pregio di comporsi di ragazzi, adulti e anziani. Quasi non c’è posto per tutti, e qualcuno rimane sulla porta.
Questa ‘anticommedia’ – come venne definita dall’autore stesso – fu pubblicata nel 1950, e costituisce uno dei testi cardine della prima generazione di autori del Teatro dell’Assurdo, termine coniato nell’omonimo testo di Martin Esslin, in cui si teorizzava la nascita di un nuovo genere drammaturgico: alla sua base il concetto di assurdità dell’esistenza, con una forte base concettuale nell’esistenzialismo, da Sartre in poi.
La pièce di Ionesco è un dialogo tra due, poi quattro, cinque, sei personaggi, in cui si susseguono frasi banali (“il soffitto è in alto, il pavimento in basso”, “i giorni della settimana sono sette”…), aneddoti non sorprendenti, vissuti con idilliaco entusiasmo e discussioni che millantano verità essenziali.
Alla ricerca di una felicità stereotipata, i personaggi (in particolare i coniugi Smith e i coniugi Martin, cui si aggiungono la cameriera Mary e il pompiere, ma con funzioni più riflessive), incapaci di dare un senso alla loro esistenza, appaiono totalmente disumanizzati nel loro reiterare insistente periodi vuoti. Tanto che il pubblico fa quasi fatica a reggere tutto questo nulla.
L’esistenza borghese è presentata come un vacuo tempo da riempire: si autodenuncia come tale nello scorrere del climax che, sul finale dell’opera, trasforma il dialogo da scambio di luoghi comuni a mugugnare di versi autonomi.
Savino Genovese, Viren Beltramo e gli attori della compagnia – Lidia Ferrari, Dario Lupo, Gabriella Dal Lago, Marco Manganaro – sanno ben vestire quest’assurdità esistenziale, giocando su un’interpretazione dai colori molto netti, vagamente isterici, certamente incisivi.
La tensione scenica è viva, le controscene e i dettagli registici puntuali.
L’effetto catartico della pièce, se mai preventivato dall’autore, libera la mente dalla vacuità e stimola una necessità impellente di ‘fare qualcosa di umano’: uscire, camminare, incontrare persone… o scrivere subito qualcosa sullo spettacolo.
LA CANTATRICE CALVA
di Eugène Ionesco
regia di Savino Genovese
con: Lidia Ferrari, Dario Lupo, Gabriella Dal Lago, Marco Manganaro, Viren Beltramo, Savino Genovese
durata: 1h
applausi del pubblico: 3′
Visto a Torino, La Vetreria, il 29 settembre 2013