Inequilibrio 14. Un punto a favore della maturità

Progetto Brockenhaus in Bruno|Il viaggio di Girafe di Abbiati
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Il viaggio di Girafe di Abbiati
Il viaggio di Girafe di Abbiati
Anche perché poi, alla fine, il teatro lo fanno i teatranti. E far teatro è un’arte ma anche e soprattutto un mestiere. Che salvo pochissimi, e non sempre invidiabili casi, si impara con il maturare del proprio spirito e con tanto, tantissimo lavoro.

Arriviamo a Castiglioncello per sbirciare. Sempre caro è questo colle. E il castello. Qui l’atmosfera è sempre propizia. Gli alberi secolari guardano con serenità all’avvicendarsi degli uomini. Così la nuova direzione artistica (Fabio Masi e Angela Fumarola) raccoglie l’eredità di Andrea Nanni e cerca di proporre un’edizione di Inequilibrio comunque improntata per molti versi alla continuità.

Il pubblico continua a seguire il festival e non manca soprattutto agli appuntamenti per la famiglia, come quello con Roberto Abbiati e “Il viaggio di Girafe al ritmo dei perditempo”. Abbiati è artista visionario capace di trasformare il nulla in poesia, di costruire animali da tavolini sgangherati e spazzole sdentate da oggetti trovati dal rigattiere di turno. E le sue epifanie emozionano.
Questo spettacolo, che oramai porta in giro da anni, è davvero un nulla dal punto di vista drammaturgico, ma una esplosione di creatività dal punto di vista del tempo comico. Per un’ora si ascolta la storia di una giraffa che dall’Africa nera arriva a Parigi.
Attorno, Abbiati e i due giovani interpreti, Alessandro Calabrese e Luca Salata, riescono a far seguire una serie di gag e di interruzioni ad un non-racconto dal ritmo davvero incalzante.
Termina prima di risultare troppo, con un cameo di Leonardo Capuano che entra in scena facendo il fratello hippy “non studio non lavoro non guardo la tv”.

Una figura indifesa e imbranata, che oscilla fra memorie e mitologia. Memorie ispirate alla vita e all’opera di Bruno Schulz, considerato il più grande maestro della letteratura polacca del Novecento. E’ uno spettacolo di parola e corpo danzato, che cerca un’atmosfera su una base sonora sempre presente. Un letto, una scrivania, dei microfoni. E i due performer Elisa Canessa e Federico Dimitri a cercare di restituire questo sogno di un’infanzia che si guarda come un miraggio dolce e assillante insieme. Parte bene ma poi si perde “Bruno” di Progetto Brockenhaus.
Spesso presenti sotto i tendoni di Armunia, i due artisti hanno una grande attenzione per la forma, sempre curata, in emozioni di luci e suoni. Ma come nei precedenti esiti, l’obiettivo rimane un po’ fuori fuoco, il commento sonoro eccessivo e un po’ sdolcinato, e soprattutto non si crea quel dialogo fondamentale con lo spettatore che può intuire ma non entrare nella proposta, nell’idea artistica.

Progetto Brockenhaus in Bruno
Progetto Brockenhaus in Bruno (photo: progettobrockenhaus.com)
Sensazione opposta e di grande impressione lascia invece Leonardo Capuano, anche lui con una riproposizione di un lavoro di qualche tempo fa, “Sa vida mia perdia po nudda”, una riduzione molto molto personale ed emozionante di “Delitto e Castigo”.
Un lottatore in palestra, a prepararsi ad un’incontro. Forse. Grandissima potenza e la sfiancante fatica che lo spettatore qui invece prova fino in fondo, soffrendo con l’interprete, sudando con lui. Le neuroscienze non sbagliano, e Capuano attiva davvero i neuroni specchio del pubblico. Bellissimo e da riproporre in giro, per un artista che deve tornare a regalarsi nuovamente in tutta la sua dolorosa forza di essere.

All’ingresso in sala una parte del corpo è appena appena illuminata. Il resto è nero in cui non si riesce nemmeno a distinguere il proprio vicino di posto.
Uno studio sonoro, agito dall’interprete nel buio, che vuole regalare una coercizione alla cecità e all’abbandonarsi al suono, alla voce. Oscura rimane però anche l’idea con cui Antonio Perrone costruisce “Oh, dolce vita mia”, ispirato alla novella Lenz di Georg Büchner su cui aveva avuto modo di approfondire l’indagine con Claudio Morganti in “Mit Lenz”.
Ben presto il tutto si condensa in una lettura a tavolino, dove la mistura di voce dal vivo, voci registrate, altezze e timbri vocali dovrebbe costruire un impasto tanto solido da trasportare il pubblico in una dimensione schizofrenica e di ottenebrata incertezza.
Ma anche qui il pubblico resta distante e staccato dall’esperimento, che invece partiva in una penombra molto interessante e con atmosfere che avrebbero potuto regalare ben altro esito. Profetico risuona il consiglio implicito che un commentatore dava in una breve presentazione dell’edizione Adelphi di questo classico bellissimo e struggente del genio di Büchner: “In questo racconto ogni parola, ogni articolazione della frase sottintendono una tensione tale da non poter tollerare neppure un minimo accrescimento”.
La creazione di Perrone ha invece la sottintesa voglia di forzare questa parola molto letteraria e non puramente teatrale per trasformarla in un’aspra maledizione. Lo spettatore resta solo trafitto dall’oscurità e spera il tutto finisca, mentre si sognano Brasile e Cile che magari stanno dando vita ad una partita all’ultimo sangue.
Surreale desiderio di teletrasporto nel caos e nella luce di Rio de Janeiro. Anche Lenz sarebbe impazzito.

A parte l’interessante proposta di Sofia Diaz e Vìtor Roriz “A gesture that is nothing but a threat”, di cui vi abbiamo già parlato, l’impressione è che in questa edizione del festival l’esperienza del mestiere affermi se stessa e in assenza di idee teatrali forti, che la generazione del teatro dei cinquant’anni segni un punto a favore della maturità, in un tempo in cui non si vedono giovani capaci di proposte audaci di frattura e avanguardia.
E’ così che, a dispetto del povero Mario Bianchi bloccato dalla pioggia, noi riusciamo anche quest’anno a cedere ai fumi della maialaia per offuscare le incertezze della scena. Ed è subito salamella.
 

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