Renzo – “Jimmy, potremmo concederci un pranzo da pascià a questo punto della nostra vita”, diceva la canzone. La diretta da Inequilibrio sotto i pini del castello è mancata, ma facciamo lo stesso due chiacchiere senza filtro. A Castiglioncello quest’anno pare gli artisti vogliano raccontare non punti di vista ma punti di vita. Istanti e momenti dell’esistere.
Mario – Certo, spesso con uno sguardo all’indietro: alla vita che è stata e che ti è stata data, come nello spettacolo di Luca Camilletti ed in quello di Tintinelli/Faloppa/Batignani.
Renzo – Senza dubbio il tema dell’età anziana che lega la riflessione ispirata al “Moby Dick” di Camilletti & co. e di Tintinelli/Faloppa/Batignani, pur nelle rispettive crudeli diversità, ha segnato le prime giornate del festival. Alla fine del primo dei due, assordato da trombe da stadio, rumori fortissimi e stordito da una piuttosto marcata (e devo dire incomprensibile) aggressività verso il pubblico, ho comunque avuto la forza di dire che era uno spettacolo molto coerente e compatto, duro, di cui non era postulabile l’esser bello o brutto. Era sicuramente scomodo. Fosse stato un po’ più pulito e meno incline alle pulsioni di stomaco della regia, poteva essere davvero un pugno da k.o.
Mario – Un poco difficile da penetrare completamente, ma quando riuscivi ad entrare, vi sedevi dentro comodamente, anche perchè l’ironia aiutava molto. Tanti Achab e pochi Ismaele, con la presenza forte di un anziano, non attore, che ha impreziosito questo spettacolo antinarrativo, sicuramente non banale.
Renzo – Tintinelli/Faloppa/Batignani: portano in scena la condizione anziana degli ospiti nelle case di ricovero per artisti indigenti. Sono tre in Italia, fra le quali la casa museo di Verdi a Milano. Ci sono momenti poetici, in cui si leggono anche gli interventi e le sei mani che ci hanno lavorato, come alcuni movimenti scenici a-là-Batignani. Unanime il consenso sull’interpretazione della Tintinelli. Forse ad un certo punto cala un po’ il ritmo e il legame col pubblico si perde. Un elemento su cui lavorare, a te che pare?
Mario – Mi è parso encomiabile che tre attori dediti alla contemporaneità rendano omaggio con deferenza al teatro di una volta. In scena ci sono una vecchia signora del teatro, che Paola Tintinelli nel complesso regge con bravura, e due spiriti del tempo che fu che l’accompagnano, una specie di miscuglio tra “Il canto del cigno” di Cechov e “Servo di scena” di Harwood. Da limare certo, ma da lodare, anche perchè spesso gli attori della loro generazione nulla sanno dei grandi che nel ‘900 hanno attraversato la scena.
Renzo – Parliamo allora della gioventù teatrale che il festival ha ospitato in questo fine settimana. Non ho potuto assistere all’inizio del lavoro di Delogu e del suo viaggio che terminerà a Santarcangelo, ma ho idea sia un esperimento interessante. Ci sono stati poi InQuanto Teatro (di cui il nostro Marco Menini sta scrivendo in queste ore e di cui quindi leggerete a breve) e Teatropersona: i primi sono giovanissimi alla sfida con i nuovi linguaggi. Alcune idee mostrano la possibilità di una creatività libera da condizionamenti psicologici e pronta alla sfida multimediale, ma l’inesperienza sui ritmi scenici fa pagar il suo conto, anche su un orizzonte temporale breve. Insomma serve qualche idea più robusta…
Mario – Sono d’accordo con te sull’inesperienza dei miei “figliocci” di InQuanto teatro; hanno bisogno di bere ancora latte per arrivare alla carne di uno spettacolo così ambizioso e composito come quello visto a Castiglioncello. Però si intuisce uno stile; forse qui mancavano gli oggetti a riempire la scena, come nelle loro precedenti performance. Per ora mi sembra che siano più lodevoli su pezzi teatrali più brevi, dove la loro ironia ha maggiore chance per emergere. Renzo – E arriviamo a Teatropersona. Sono rimasto particolarmente deluso dal lavoro, che si è concentrato sulla cura estetica formale, ispirata a suggestioni da universo manga neanche particolarmente velate, come il “Castello errante” di Myazaki di cui più d’una costruzione scenica ricordava la forma. E anche la drammaturgia, con daimon, esseri del mondo delle percezioni, universi di proiezione delle anime. Ma qui risiede il peccato originale di uno spettacolo che, proprio sulla drammaturgia, scivola in modo madornale, non scolpendo in alcun modo alcuni personaggi, non mettendo in chiara evidenza alcuni passaggi logici indispensabilli e indugiando invece in inutili scene di autocompiacimento estetico, fra tagli di luce arditi, musica da film kolossal 3d e tanto fumo artificiale. Ma intanto la regia perdeva completamente di vista l’arrosto, che infatti…
Mario – Concordo pienamente; uscendo un amico mi diceva: “Quanto talento sprecato”. Concordo anche con lui. Seguo il lavoro di Alessandro Serra da parecchio tempo, so che ha molte capacità, che sono avvertibilissime anche in questo spettacolo, ma purtroppo qui la drammaturgia ha degli evidenti buchi, che appesantiscono lo spettacolo che, per inciso, dovrebbe essere dedicato ai ragazzi. Dà molte suggestioni senza approfondirne nessuna, soffermandosi solo sulla sua indubbia capacità di creare magie teatrali. Avrebbe bisogno di qualcuno che governi le sue capacità sempre un po’ troppo, diciamo, “ostentate”. Insomma dovrebbe imparare un po’ la misura come accade nel suo “Principe Mezzanotte”, uno spettacolo veramente notevole.
Renzo – Tornando solo per un attimo ai fornelli, voglio rendere merito alla sempre lucida creatività ed ironia dei Sacchi di Sabbia, che hanno offerto una replica del loro Sandokan nella pineta di Castiglioncello. Il loro racconto vegan, tutto giocato con ortaggi e vegetali a fare da complemento e strumento di scena è, come il don Giovanni, imperdibile, creato su un codice di ironia di cui solo loro paiono essere così liberi interpreti in Italia. Rendo grandissimo merito alla loro libertà, alla piena sensazione di un teatro che suona rivoluzionario proprio per la sua semplicità, coniugata sempre alla volontà di comunicare. Identica, pur nella sua diversità, alla libertà di Roberto Abbiati, di cui Castiglioncello ospita una mostra di creazioni di scena pregevolissime. Abbiati è un grande artista visionario del nostro teatro.
Mario – Guerrieri compone spettacoli in cui la materia utilizzata sul palco è sempre diversa (ortaggi, cantori, libri), ma che invece contengono tutti una eguale capacità innata di narrare il mondo attraverso la profondità dell’ironia. Che dire poi di Abbiati? Basta vedere nella bella mostra di Castiglioncello la sua scarpa che diventa magicamente una carpa per svelare tutta la ricchezza magica del suo teatro “povero”.
Renzo – In un interessante intervento durante un incontro pomeridiano, Andrea Nanni, direttore artistico del festival, rivendicava all’interno delle scelte della direzione artistica di un festival come quello di Castiglioncello la necessità del dialogo con il territorio. Testimonianza di ciò sono state senz’altro, oltre alla bella mostra fotografica sulla storia di quest’angolo di Toscana dagli anni della dolce vita ad oggi (corredata da una pregevole pubblicazione di tracce e memorie), anche le presenze di Leonardo Capuano e Maurizio Lupinelli/Nerval. Il primo è una prova di abilità attorale a tratti anche ispirata e poetica di un artista che deve rimettere assolutamente al centro la sua capacità di fare arte. Su Nerval l’impressione che ho tratto è stata di una continuazione delle emotività da penombra su cui Lupinelli indaga da anni, ma forse dovrebbe trovare anche il coraggio di altre spinte.
Mario – Capuano, attore a mio avviso di grandi capacità ma così poco sfruttate dal teatro italiano, mi ha convinto attraverso una storia apparentemente strampalata, narrata da un balbuziente con una gamba che lo fa sempre ballare. Punti di vita di uomini e di donne narrati con efficacia, senza ostentata capacità di immedesimazione, ma trasposti con divertente e divertita leggerezza, per di più sotto un alone di soffusa malinconia. Trovo invece il testo “fecale” di Schwab “Le presidentesse”, nella messa in scena di Lupinelli, assai difficile da sostenere da parte dello spettatore, proprio perchè la materia trattata, invece di conservare il forte carattere di metaforizzazione che possiede, viene proposta nella sua oggettiva grevità.
Renzo – Concludiamo questa chiacchierata post-primo fine settimana di Inequilibrio con la menzione per l’intenso “Zigulì” di Lagi/Colella ovvero Teatrodilina. Penso di essere stato fra i primissimi testimoni del debutto di questo lavoro all’Atir Ringhiera di Milano nell’inverno di quest’anno, e mi era parso subito potente e bellissimo. Poi hanno vinto un premio e la meritata possibilità di girare. La tua visione a cinque mesi di distanza che impressione ti ha lasciato?
Mario – Mi sono proprio commosso. Francesco Colella è intenso e credibilissimo in tutte le sue sfumature, e la drammaturgia di Francesco Lagi tratta dal libro di Massimiliano Verga è pressochè perfetta. Lo avevo già notato al Franco Parenti per il suo “Amleto della buna notte”: Colella riesce benissimo a trasmettere tutta l’angoscia e, nello stesso tempo, la forza di un padre davanti alla malattia del figlio. Senza arma alcuna, solo con la sua semplice e diretta partecipazione ai fatti narrati, riversa sul pubblico tutte le sue diversissime emozioni, senza pietismi di sorta ma anche con momenti di rabbia e persino di ironia: è lo spettacolo che in questi due giorni mi ha “preso” di più.
I nostri racconti da Inequilibrio continuano, con altre voci e altri stili, anche nei prossimi giorni…