Teatropersona dall’immagine alla parola. Intervista ad Alessandro Serra

Vilhelm Hammershøi|Aure - Foto di Scena
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Aure - Foto di Scena
Aure (photo: Alessandro Serra)

Premio Beckett&Puppet 2006 per “Beckett Box”, vincitori del Premio Eti Nuove Creatività e del Premio Lia Lapini alla Scrittura di Scena 2008 per “Trattato dei Manichini” e ora in procinto di presentare il nuovo lavoro, “Aure”, che chiuderà la “Trilogia del Silenzio”. Al di là dei riconoscimenti ottenuti, Teatropersona, compagnia di Civitavecchia (RM), dimostra di aver voglia di cercare.

Abbiamo incontrato il fondatore e regista Alessandro Serra al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, al termine della 99^ replica de “Il Principe Mezzanotte”, vivace e sapiente spettacolo di teatro ragazzi reduce da una fortunata tournée all’estero. Seduti su una panchina del quartiere, abbiamo parlato del loro teatro, dei passi compiuti e ancora da compiere, scoprendo una compagnia completamente indipendente che non ha paura di mettersi in gioco affrontando un percorso assolutamente non univoco, che va dal teatro di figura alla prosa.

Visto che lo spettacolo è appena finito e ancora possiamo vedere uscire un’orda di bambini entusiasti, mi viene spontaneo chiederti qualcosa di questo Principe Mezzanotte.
Non io in particolare, ma Valentina [Salerno, ndr] ha sempre avuto la passione di lavorare con i bambini. Naturalmente ormai, con lo spettacolo che gira così tanto, le è rimasto tempo per tenere un solo corso, per i bambini con cui aveva cominciato alla materna e che ora hanno 10-12 anni. Il gruppo storico, insomma. Io di teatro ragazzi ne ho visto poco e quel poco che ho visto  non è che mi sia piaciuto poi molto. Anche se mi pare che ultimamente si stiano producendo ottimi lavori, ad esempio a scenario, nel 2008 insieme a noi c’erano altri ottimi spettacoli. La verità è che purtroppo in Italia il teatro rivolto ai bambini è considerato un teatro di serie B, mentre in Francia, ad esempio, è tenuto in gran considerazione. Un po’ come il teatro di figura, che vive le stesse difficoltà. Con Gaspare Nasuto siamo stati insieme a Gorizia e lui mi raccontava di aver fatto questo spettacolo su Bergman, “Il settimo sigillo”, che – diceva – ha riscosso molto successo. Tutti a dire “meraviglioso, meraviglioso, meraviglioso!” mentre di fatto ha girato pochissimo. Questo perché in Italia si tende a pensare che il pubblico per certi spettacoli non esista, a sottovalutare insomma il livello di preparazione o il grado di raffinatezza di chi va a teatro. Quello di pensare che il problema del teatro italiano sia la mancanza di pubblico è un luogo comune che fa male al sistema. Non è vero che non c’è pubblico.

Da dove siete partiti?

Dall’immagine del comò, un oggetto da attraversare o meglio un oggetto come porta di accesso, dietro al quale esiste un intero mondo. La cosa che non mi è mai piaciuta del teatro ragazzi tradizionale è che i bambini vengono portati a teatro e messi lì in platea. Tu sei qui, loro sono lì. Così come non mi piace quando si fa il teatro nelle palestre. Magari è vitale, ma è un piuttosto brutto, non è un luogo dedicato al teatro. Manca totalmente di ritualità. Volevamo creare un luogo magico che i bambini potessero attraversare, in cui potessero entrare. [Lo spettacolo comincia con un comò in proscenio, dai cui cassetti spunta “Il Principe Mezzanotte”. Il comò si apre e i bambini vengono accompagnati dentro, oltre il sipario, ndr]. Per quanto potrà sembrare strano, i bambini, partecipano al gioco delle convenzioni teatrali, istintivamente si lasciano proiettare in un altro luogo, magico, se si vuole, e poi la limitatezza dello spazio, solo 100 bambini in uno spazio ristretto, rende la partecipazione un fatto fisico, tutte le scene di interazione con i bambini non le abbiamo decise noi, ma è stato il pubblico ad esigerle di replica in replica.

Lo spettacolo ha girato molto all’estero.

È andata benissimo. Siamo stati in Svizzera, in Polonia e soprattutto in Francia, dove abbiamo girato per più di un mese. Ed è stata un’esperienza bellissima proprio perché, come dicevo, lì c’è una grande attenzione per il teatro ragazzi. E poi la cosa bella che abbiamo scoperto è che in Francia anche il più piccolo paese ha una sala teatrale tenuta in maniera impeccabile, organizzata benissimo. La caratteristica che è stata accolta all’inizio con sorpresa e poi con entusiasmo è stata l’interazione bambini-attori, che è prova dell’attenzione che si crea ed è imprevedibile. Ma arricchisce molto anche il lavoro degli attori. In questo modo i bambini non subiscono l’evento teatrale, ma sono partecipi, senza tuttavia essere intrattenuti. L’importanza del teatro ragazzi risiede nel fatto che esso  rappresenta un’alfabetizzazione culturale necessaria. Come nella letteratura. Se i bambini non si abituano fin da piccoli a leggere libri adatti a loro, non arriveranno mai a leggere Dostoevskij, si fermeranno a Moccia. È importante andare a teatro da quando si è piccoli, ma è fondamentale che si costruisca una curiosità, uno stimolo creativo.

La lingua è stata un problema?

Valentina parla bene il francese e ha così avuto modo di improvvisare, cosa importantissima con i bambini. Anche qui, a fare la grossa differenza è stata l’attenzione degli operatori. Molti a fine spettacolo, vengono da noi e ci forniscono indicazioni sui termini migliori da usare. Anche perché i bambini parlano una lingua fatta in gran parte di termini tutti loro, che cambiano a seconda dell’area geografica. E questo forma il pubblico, per questo poi la gente in Francia o in Germania va a vedere Peter Brook o Pina Bausch.

Altre tournée all’estero in programma?

Stiamo programmando la Francia per la stagione 2011-2012, ma stiamo cercando andare all’estero anche con l’intera Trilogia. Probabilmente andremo a Mosca, forse a Tel Aviv, stiamo pensando anche a una versione spagnola e inglese del principe Mezzanotte. Devo dire che quella del Principe Mezzanotte è stata una bella spinta in avanti, ci ha dato molta fiducia, abbiamo fatto più di 100 repliche. È una cosa sana per l’attore, si forma in scena. Senza il pubblico si inaridisce, non acquisisce mestiere.

Teatro ragazzi, teatro di figura, teatro di parola. Non per incastrarvi in categorie che significano poco, ma in quali staffe avete i piedi?
Prima di “Beckett Box” abbiamo fatto altri spettacoli, spettacoli di parola, di prosa, di cui non c’è purtroppo traccia sul nostro sito, che invece comincia a raccontare la nostra storia da “Beckett Box” in poi. Con quello spettacolo abbiamo vinto, anche un po’ inaspettatamente, questo premio europeo, il “Beckett & Puppet”, peraltro il riconoscimento è andato principalmente al lavoro degli attori, non avevamo mai lavorato con il teatro di figura. Invece è stata una bellissima esperienza, Fernando Marchiori ha poi pubblicato un libro omonimo. Poi il “Trattato dei Manichini” e poi questo “Aure”.
Per quanto mi riguarda non esiste teatro che non sia ricerca, il resto appartiene alla sfera della recita e dei mascheramenti: si impara un testo a memoria, ci si veste da Amleto, e si va in scena a ri-ferire il capolavoro di Shakespeare. Certo occorre una certa precauzione poiché molto dilettantismo si traveste da teatro di ricerca, mi riferisco alla pressoché totale mancanza di formazione di certi giovani attori che, complici di altrettanti improvvisati addetti alla cultura, eleggono concettualmente il dilettantismo a stile teatrale, ma per me è solo spazzatura. Occorre rischiare, essere spietati, aldilà degli esiti, il sublime spesso passa dal patetico, è un rischio che va corso, se è sincero, resterà comunque un fatto degno di nota. E non si sarà ingannato lo spettatore.
Amo il teatro di figura, che non è semplicemente teatro di pupazzi, e ho riscontrato in due anni di Tournèe in mezzo ai bambini e alle famiglie una vera rigenerazione, ma mi piacerebbe tornare presto al teatro di prosa, nei confronti del quale trovo che ci sia uno snobismo eccessivo. È esistito un grande teatro di rappresentazione: Eduardo, Visconti, Mastroianni, Stoppa, attori e registi strepitosi. Ma anche oggi a ben guardare, come l’esperienza di Servillo.
Dopo anni in cui ho sempre scritto da me gli spettacoli, avrei voluto affrontare un testo classico, confrontarmi con un drammaturgia strutturata prima dell’inizio delle prove, senza necessariamente rinunciare alla scrittura di scena. Tuttavia non ci sono ancora riuscito, perché occorre una grande produzione, tanti attori. E dal momento che noi gli attori li paghiamo, per ora non è stato ancora possibile. Oltretutto forse era anche giusto chiudere questa “Trilogia del silenzio”: è stato un periodo importante per noi, lavorare sulla materia. Il silenzio affina l’ascolto.

Vilhelm Hammershøi
Vilhelm Hammershøi, Stanza da letto, 1890

Parlami un po’ di “Aure”, la nuova produzione. Anch’esso lavora sulla memoria.
È un percorso comune a tutta la Trilogia. Agire sulla materia pura e semplice, cioè i corpi degli attori, i costumi, lo spazio, gli oggetti, la luce.

Com’è nato il progetto?

La reazione chimica è avvenuta dopo aver letto “La recherce du temps perdu” di Marcel Proust. Avevo provato quando avevo vent’anni, ma forse non avevo vissuto abbastanza, lo stesso mi accadde con il teatro di Cechov, che dopo i 30 anni acquisisce tutto un altro senso, semplicemente diventa commovente, parla di te, di me, dell’oggi, di come eravamo e di come avremmo potuto essere. Proust, è una quercia, forse insieme a Kafka il più grande del 900. La sua opera è un fiume placido e solenne di parole, ma soprattutto, un capolavoro pittorico, sinfonia perfetta di suoni e rumori. Tutto trasfigura, si agita, fluttua, deambula con una qualità sonnambolica in un mondo che è quello reale, ma è spinto come da un afflato che appartiene all’altra sfera.
Non ci sarà storia né personaggi, solo figure e un luogo, la stanza della memoria, più volte descritta da Proust come una specie di secondo appartamento, quello del sonno. Autore dello spazio e delle figure Vilhelm Hammershøi, pittore danese del silenzio, capace di permeare la scena di tempo. Nei suoi interni, cui lo spettacolo si ispira, il tempo fluisce come fatto luminoso, tutto è al contempo immobile e vibrante: i tavoli e le sedie sembrano pronti a piroettare, gli oggetti a librarsi in volo, le numerose porte sempre sul punto di schiudersi, rivelando presenze taciute e stanze della memoria involontaria. L’idea è quella di utilizzare lo spazio, la luce e gli elementi scenici forniti da Hammershøi dentro il ritmo, la qualità, le dissolvenze spazio-temporali descritte da Proust. Mi sono mosso seguendo quello che Élemire Zolla chiamava “schietto impressionismo di Proust”, per cui da una tazzina si sfuma in dissolvenza in un oceano, come il miraggio della Fata Morgana nello stretto di Messina che manifesta spesso, agli occhi dei calabresi, una città altra, sospesa, fluttuante nell’aria, anamorfica, con case e persone che appaiono e si deformano e in breve tempo, svaniscono. Si sa che il fenomeno è dovuto a minuscole particelle d’acqua che fanno da lente d’ingrandimento, la luce fa il resto dell’opera. Ma la città non è un’illusione, c’è, aldilà del mare, i calabresi ne vedono solo l’immagine in movimento, il cinematografo. Anche in questo caso è la debolezza retinica dell’occhio umano, che gioca un ruolo fondamentale, ad esempio, nel teatro di figura: se abbassi la luce piano piano, l’occhio comincia a pulsare, tenta di mettere a fuoco con una palpitazione che è un ritmo che si accorda con il battere del cuore.


Le tappe quali sono?

Il debutto ufficiale sarà a Kilowatt 2011 e a Bassano Opera Estate a settembre. Ma prima presentiamo a Civitavecchia il 16 marzo uno studio, un’altra tappa il 30 a Venezia a Fondamenta Nuove e poi Anghiari, Castiglion Fiorentino e Sansepolcro.

In questo sistema teatrale un po’ bulimico come ti rapporti alla dimensione “studio”?

È un concetto per me privo di significato, non conosco spettatori disposti a pagare un biglietto per assistere a uno studio o a uno spettacolo di 20 minuti. A proposito di teatro di ricerca, a Torino mentre eravamo ospiti del festival Incanti abbiano assistito a un gioiello di spettacolo della durata di 5 minuti, ma non era uno studio era un’opera. Il pubblico paga per assistere ad opere d’arte non ai tentativi dell’artista, non è un fatto di durata. Ma quando mai si compra un libro di poesie studio o un’opera pittorica incompleta, altra cosa sono le prove aperte …
Certamente uno spettacolo inizia a definirsi almeno dopo sei mesi di repliche, in questo senso l’apporto del pubblico è vitale, e di certi spettatori accorti, o di una certa critica, non certo quella delle recensioni. Non mi interessano i pareri di ordine estetico, tanto alla fine si riduce tutto a quello, mi piace non mi piace. Non è pertinente, se i miei spettacoli piacciono qualcuno li comprerà altrimenti pazienza. Diverso è il ritorno dello sguardo è un fatto visivo, videor ut video, sono visto affinché io veda. Mi interessa ciò che lo spettatore vede, l’immagine si imprime nella retina e nei corpi di chi vede sempre in maniera autonoma e inedita. Succede anche quando le scene nascono in prova ,ogni attore vede una immagine diversa, se vedono tutti la stessa cosa, solitamente si tratta di un elemento privo di forza.

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  1. says: Alessandro Serra

    Caro Claudio
    rispondo con un ritardo di quasi 4 anni…
    ci stavo pensando…

    uno dei tuoi studi l’ho visto, Claudio, e a me semplicemente è sembrato di vedere un’opera…
    ma come dice un conoscente comune: ” le verità sono anche solidi alibi”.
    io mi riferivo e mi ri-ferisco (quando mi capita di vederli) alle micro confezioni del nulla. Laddove viene meno il rispetto per il pubblico.
    Mostrare 20 minuti richiede opera di distillazione, pazienza, labor limae (gridava invano la mia insegnante di italiano).
    Dirò di più, può essere un’operazione molto utile prima del gran salto nel vuoto…
    riassumere in una frase, stigmatizzare in un soffio, in un gesto…
    azzardare inedite corrispondenze e filiazioni…
    fare il montaggio delle distrazioni…
    come nella vita…
    ma Pasternak l’ha detto meglio:

    Lascia dei vuoti nella vita…
    e mai non esitare a cancellare
    interi blocchi, capitoli interi
    della tua esistenza e del tuo fato.

    con sempre più ammirazione

    Alessandro

    P.S. crepi il lupo!

  2. says: Claudio Morganti

    Approfitto per un saluto.
    E per un commento.
    Se per anni pasticciatori della scena hanno chiamato “studi” i loro pasticci, questo non dovrebbe squalificare la parola “studio”.
    Da tempo non chiamo più i miei lavori “spettacoli”, preferisco chiamarli “studi”.
    Per via di quelle macroscopicamente sottili differenze che mi sembra di vedere tra la “question spettacolo” e l’ “affaire teatro”.
    Una di queste differenze sta nel “cosa” si mostra.
    O mostri il risultato del lavoro di un attore (che ha studiato), o mostri un attore che lavora (che sta studiando).
    Oh! materia per un breve saggio, ma qui di “commento si tratta”, quindi chiudo stringato con un esempio (ahimè, forse non del tutto calzante):
    certo il “Campo di grano con corvi” non ha prezzo (invece poi ce l’ha), ma io lo cederei volentieri in cambio della possibilità di vedere Van Gogh mentre lo dipinge.
    (l’esempio è leggermente fuori fuoco poichè lo studio sulla scena può dirsi tale solo se non prelude ad un prodotto finale).
    In bocca al lupo per tutto.
    Claudio Morganti

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