Danzare la rivoluzione, inventare il moderno e far rinascere una classicità tutta nuova proprio agli albori di un contemporaneo furente di avanguardia: sull’onda di questi slogan si è mossa la mostra (curata da Maria Flora Giubilei e Carlo Sisi) che negli ultimi mesi ha animato le sale del Mart di Rovereto, per capirne di più sulla prorompente entrata in scena di Isadora Duncan all’interno del panorama artistico italiano tra Ottocento ed Avanguardie storiche.
170 le opere in mostra provenienti da prestigiose collezioni private e dai musei di tutta Europa per declinare in tutte le sue sfaccettature, anche inedite, l’icona della pioniera della modern dance americana. Dipinti, sculture, documenti e fotografie che coinvolgono nomi del calibro di Auguste Rodin, Umberto Boccioni, Fortunato Depero, Felice Casorati, Antoine Bourdelle: tutti riuniti per celebrare una musa prima ritratta nei quadri del migliore tardo-impressionismo, poi capace di ispirare le sinuosità di opere eccezionali come il marmo rodiniano “Eve au rocher”, ma anche riprodotta a stampa per i manifesti delle sue performance da affiggere fuori dai teatri, o da immaginare vestita con alcuni abiti originali collocati al centro delle sale, fino alla calligrafia dei suoi lasciti scritti, con qualche lettera racchiusa nelle teche.
E in una mostra simile non poteva che respirarsi l’aria di un tempo tanto perduto quanto vivo solo dentro sé stesso: un tempo in cui, tra l’altro, i poli geografici della vivacità dell’arte disseminati sul territorio italiano non erano di certo quelli che oggi il contemporaneo ci ha abituato a frequentare.
Quella conosciuta e permeata dalla Duncan era infatti piuttosto un’Italia sempre in villeggiatura, nutrita dal neoclassicismo tutto particolare dell’immaginario primo-dannunziano, e dedita a vivere il proprio grande sentire tra gli azzurri lidi della Versilia e le sale maggiori dei teatri di città.
A conclusione ideale della mostra non poteva mancare la performance che il grande coreografo francese Jérôme Bel ha ideato appena l’anno scorso a partire dalle coreografie della Duncan. Un lavoro capace di tenere assieme tanto la necessità didattica quanto la problematizzazione dell’eredità duncaniana.
L’assistente del coreografo Chiara Gallerani entra in scena senza troppa teatralità, sostituendo il programma di sala con la propria voce, ed introducendo poi – non senza cenni storici – le coreografie che un’impeccabile Elisabeth Schwartz poco dopo andrà ad eseguire.
Le dances della Duncan sono dunque eseguite una prima volta sulla musica originale che le ha ispirate, e una seconda con la performer accompagnata da descrizioni annunciate dalla Gallerani, che definiscono le parole con cui la stessa Schwartz descriverebbe la serie di movimenti che sta eseguendo, ed infine, con un’agnizione possibile offerta al pubblico, una terza volta di nuovo con la musica soltanto.
Non manca poi un momento di coinvolgimento del pubblico nel quale gli spettatori sono invitati a salire sul palco per riprodurre anch’essi i gesti duncaniani sotto la guida della Schwartz.
Uno spettacolo, insomma, capace di guidare il pubblico nella narratività possibile delle coreografie portate in scena, come accade ad esempio anche con “Revolutionary”, ideato dalla Duncan attorno al 1923 sullo Studio Op. 8 No. 12 di Aleksandr Skrjabin, in cui Bel aiuta gli spettatori a vedere prima la condizione dell’operaio alienato ed in catene fino alla liberazione rivoluzionaria che coinvolge anche gli altri compagni: un pezzo che ci fa pensare non poco a certi stilemi tipici del realismo socialista che nascerà in Unione Sovietica dieci anni dopo.
Pensando poi alla rigida contrarietà della Duncan rispetto alla registrazione delle sue dances tramite il mezzo cinematografico, secondo lei assolutamente incapace di rendere la fluidità dei suoi movimenti, e riflettendo quindi anche su ciò che questa convinzione ha implicato in termini di ricezione e conservazione delle sue creazioni, è davvero significativo vedere il pubblico distribuito sul palco che, ripetendo una sua coreografia, arriva ad impararla a memoria seguendo le indicazioni della Schwartz, lei stessa allieva di Julia Levien, a sua volta allieva diretta di Anna Duncan, una delle figlie di Isadora.
Pare che qualcosa stia accadendo, insomma, di fronte a questa performance, e così ci è sembrato anche e soprattutto grazie alla scelta di una performer, ormai settantenne, capace di lasciar intravvedere la leggerezza illuminata di un mondo che ci suggerisce essere ormai non più perpetuabile, non più davvero raggiungibile.
Nel dominio del contemporaneo, tornare a piedi nudi sulla scena, in un vestitino leggero chiuso da una cinta come vuole l’iconografia da menade danzante della migliore scultura di Skopas, in una danza naturale nutrita di un’instancabile classicità, è proprio questo corpo – appena liberato dal corsetto – a risultarci così eloquente, forse per l’equilibrio raggiunto di fronte alla conservazione di un modello che, pur tale, è ben capace di lasciarsi alle spalle il vetusto delle costrizioni del balletto classico.
ISADORA DUNCAN
(2019)
di Jérôme Bel
coreografie Isadora Duncan
con Elisabeth Schwartz e Chiara Gallerani
prodotto da R.B. Jérôme Belin co-produzione con La Commune centre dramatique national d’Aubervilliers, Les Spectacles Vivants – Centre Georges Pompidou (Paris), Festival d’Automne à Paris, R.B. Jérôme Bel (Paris), Tanz im August/ HAU Hebbel am Ufer (Berlin), BIT Teatergarasjen (Bergen)con il supporto di CND Centre National de la Danse (Pantin), MC93 (Bobigny), Ménagerie de Verre (Paris) in the framework of Studiolab for providing studio spaces
Visto a Rovereto, Auditorium Fausto Melotti, il 29 febbraio 2020