Il trionfo ad Avignon di Israel Galván, danzatore delle solitudini

Israel Galvan
Israel Galvan
Israel Galvan (photo: Luca Fiaccavento)

Questa non è una recensione di uno spettacolo ma del suo inizio, di un prologo. Questa non è la cronaca di una serata, ma vorremmo fosse quella della definizione del sentimento artistico.
Ho sempre provato personale fastidio verso i ragionamenti per categorie, verso chi ha necessità di etichettare gli spettacoli come appartenenti a questa o quella “specie”. Lo trovo contrario al nostro tempo, intimamente antistorico e in antitesi con il sincretismo che il Ventunesimo secolo porta, nel bene e nel male, in dote della storia.

Un etichettatore, infatti, direbbe che lo spettacolo che Israel Galván ha portato in scena al Festival di Avignon nell’ultimo fine settimana della rassegna è uno spettacolo di flamenco.
Il sincretico non potrebbe dargli torto, ma sentirebbe addosso il premere di una camicia che gli si restringe di colpo di cinque taglie.
L’etichettatore (come già successo al Napoli Teatro Festival per la “Fedra” di Narros-Latorre) sarebbe naturalmente portato a ritenere che uno spettacolo della “specie” danza, ancor più di flamenco, dovrebbe avere una cittadinanza limitata in un cartellone della “specie” teatro. E’ questo il motivo per il quale l’etichettatore ha dovuto, suo malgrado, cedere alla storia, creando per sua intima tranquillità il concetto rassicurante di teatro-danza.
Il sincretico semplicemente non si pone il problema, storcendo anzi il naso persino di fronte alla parola “performance”, che è piuttosto un contenitore vuoto all’interno del quale si riversano abilità straordinarie ma anche, non di rado, mediocrità esemplari.

Qualcuno avrà già visto Galván alla Bienal de Flamenco de Sevilla, a Torinodanza nel 2008 o di recente a Villa Adriana a Tivoli. Chiunque abbia avuto questa fortuna può capire facilmente perché partiamo nella nostra riflessione con un attacco alle categorie.
L’arte scenica del nostro tempo è un complesso di simboli, rimandi verbali e non che, con sempre maggior frequenza, mescola le storie e la storia, frulla categorie, si siede con i piedi ciondolanti sull’orlo del precipizio dell’arte, indagando proprio quel confine d’aria e luce.

Carrière de Boulbon, squarcio nella terra nel centro di una riserva naturale a quindici km da Avignone, prossimo alla foce del Rodano. Sera fresca di mezza estate. Una grande tribuna per oltre mille persone trasforma l’emiciclo naturale in un anfiteatro. “El final de este estado de cosas, redux” è il titolo che Israel Galván ha scelto nel 2007 per questa coreografia di cui è anche interprete.
Figlio di Eugenia de Los Reyes, una gitana per la cui tecnica ha un’ammirazione totale, e del grandissimo José Galván, che ha insegnato il flamenco ad una generazione di andalusi, il giovane Israel è senza dubbio il più innovatore dei ballerini (di flamenco e non solo) che vanta oggi la Spagna.
Il suo “El final de este estado de cosas” è uno spettacolo in più quadri nato della lettura del testo biblico dell’Apocalisse, che incarna immagini, visioni, versi e parole sviluppatesi nella mescolanza sinestetica fra il testo sacro e la sua attualizzazione nel presente dell’esistere, dell’artista nel suo tempo.

L’etichettatore ha in mente la Spagna delle “panderetas”, il flamenco dei tamburelli delle feste popolari. E il flamenco per lui è quello. Probabilmente l’etichettatore, pur appassionato di teatro, non sarebbe neanche andato a vedere uno spettacolo del genere, perchè le categorie sottendono il rischio della pigrizia, e non aiutano a superarle. Le categorie sono statiche, l’esatto opposto dell’arte, che è un concetto per sua natura dinamico, che ha un passato ma anche una sua eterna attualità, come ricordava quest’anno l’installazione con la scritta al neon sulla facciata del museo archeologico di Berlino: “Ogni arte è stata contemporanea”.
Il sincretico,  invece, godrebbe di questo flamenco, figlio di Garcìa Lorca, che ha la memoria gitana ma anche lo squarcio della chitarra elettrica, che abbina alla forza della tradizione il potere moderno di porre domande su etica, religione, politica e vita, fino ad arrivare alla fine di questo stato di cose, a danzare con la morte, nel luogo in cui tutto finirà. Gli assi di legno che per tutto lo spettacolo sono base dell’incontro fra il corpo di Galván e il ritmo, prendono la forma della bara. E lui ci danza dentro, in quei quaranta centimetri quadri, simbolo di un’apocalisse individuale che raccoglie la sfida che l’artista propone ad inizio spettacolo.
Questo flamenco dovrebbe essere visto dappertutto, perchè è proprio il modo in cui il linguaggio del corpo prende il rischio di uscire dalla trappola del folklore, spaziando dal registro classico all’arte mimica del butoh, dalla musica contemporanea al rock’n’roll.

E qui, ora, vi raccontiamo l’inizio dello spettacolo. Per puro gusto, chiedendo al lettore uno sforzo di immaginazione che miri dritto al massimo della sofisticatezza estetica e poetica che può venire in mente, lasciando la categoria flamenco fuori dall’immaginario e pensando a tutto quello che può nascere dal misto.
Premessa: Yalda Younes, giovane ballerina flamenca nata in Libano, scrive un giorno a Galván mandandogli un dvd.
Ha deciso di portare in scena uno spettacolo dedicato a Samir Kassir, giornalista libanese assassinato nel 2005, in cui la base per i suoi passi di danza sia il rumore delle bombe che cadono dagli aerei israeliani nel recente conflitto.
Due anni dopo, quando crea la coreografia di “El final de este estado de cosas”, Galván decide di proiettare, nel prologo dello spettacolo, una sequenza di quel ballo.

Lo spettacolo inizia dunque così.
I musicisti entrano in processione, un misto fra Semana Santa e Apocalisse; poi dal buio, in una quadrato di luce su una polvere di calce bianca, appare Galván a torso nudo con indosso una maschera da teatro greco.
Come statua che esce dal marmo, come interprete, ballerino, mimo, con lenti gesti che attraversano la commedia dell’arte, il teatro balinese e la scuola butoh, Galván estrae la movenza flamenca dal sincretismo dei movimenti dell’arte, ricollega il flamenco all’arte scenica, prende la testa dell’etichettatore (che, ahimé, sarà probabilmente rimasto a casa a dormire sonni tranquilli) e la sbatte in un universo sconosciuto, muovendo le mani in una gestualità che attraversa il mondo, affondando i calcagni nella sabbia bianca e di tanto in tanto battendo il piede nella polvere, sollevando in controluce questa finissima sabbia, a farne nuvola, respiro della creazione.
Poi lascia che il flamenco racconti la storia, proiettando sullo schermo il video della Younes. Terminato il video, Galván, a modo suo, risponde all’amica ballerina con una sequenza in cui danza su due assi molleggiati, e mima la tragedia dell’esistenza in bilico, che sia sotto le bombe o appesa al filo del destino. Un’orchestra gitana di primissimo livello accompagna con voci, mani e suoni, il diroccarsi della certezza dell’essere.

Le tavole sconnesse si sollevano, anzi è lui a sollevarle a comando, cosicché suonino, si senta il rumore dello scricchiolare e del percuotere, della danza e del teatro, il frastuono dell’arte che è sempre e solo uno, ma che ha modo di riverberarsi in miliardi di note, fino al finale di questo stato di cose, fino a quei passi apocalittici ballati nei quaranta centimetri quadri di bara.
Grandissimo teatro, straordinaria e travolgente interpretazione coreutica, mescolanza di valore assoluto, da vedere e rivedere. Ma attenzione, per l’etichettatore questo è “solo” flamenco: per questo il progresso umano è così faticoso e l’arte è da sempre, nei secoli, il modo con cui l’uomo anticipa i passi della storia.

El final de este estado de cosas, Redux
coreografia e danza: Israel Galván
direzione artistica: Pedro G. Romero
regia: Txiki Berraondo
canto: Inès Bacan, Juan José Amador
chitarra: Alfredo Lagos
percussioni: José Carrasco
danza, palmas, compas: Bobote
violino: Eloisa Sánchez
Gruppo Orthodox
Gruppo Proyecto Lorca
video brani da “NON in omaggio a Samir Kassir”
brano elettroacustico: Zad Moultak danzato da Yalda Younes
immagine video: Isabelle Jacques (Musique Alhambra)
assistente coreografo: Marco de Ana
consigliere di danza Butô: Atsushi Takenouchi
luci: Ruben Camacho
suono: Felix Vázquez, Pedro Leon
direzione di palco: Balbina Parra
scene: Pablo Pujol, Pepe Barea
costumi: Soledad Molina (Mangas Verdes)
durata: 1 h 40′
applausi del pubblico: 6′ 32″

Visto a Avignon, Carrière de Boulbon, il 25 luglio 2009
Festival d’avignon 2009

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