
Ecco il filo rosso e originale di un festival che riesce ad aprire, allo sguardo e al cuore dello spettatore, un territorio che, ovviamente, è lì da sempre ma, così, è solo una volta all’anno.
Un esempio? A Olgiate Molgora, Casa Gola è una villa circondata dal suo parco e, all’interno, affacciata sul cortile, la villa diventa un teatro a cielo aperto dove le finestre che sbucano dall’edera rampicante la facciata fanno da scenografia. Tanto che sembra proprio abitare lì la Morte di Nudoecrudo Teatro, che fa capolino nel bel mezzo della vita messa in scena da “Mòriri, riti di passaggio”, come lo fa nella realtà del resto. Realtà che viene qui riprodotta da meccanismi e macchinari del teatro tradizionale, sia dal punto di vista drammaturgico che scenico: allora, anticipata da una nuvola di fumo bianco, la Morte è una persona in carne ed ossa, e maschera, con la voce rauca e un fisico snello, vestito elegante e portato in modo strafottente, con il frac e il sigaro, che arriva a svegliare i vivi dai loro sogni (di immortalità?). Vivi che, in una quotidianità più o meno spirituale, più o meno pagana, trattano la morte come possono – visto che proprio devono – legandola a riti, miti, feste e dolciumi da tramandare.
Il valore aggiunto dello spettacolo sta nella presenza di un coro di anime che, bisbigliando accompagnate da una meravigliosa fisarmonica, richiamano ogni luogo e regione della ricchezza popolare italiana.
Patrimonio ben diverso, sia per volume che per colori, rispetto a quello (im)portato dalla Polonia a Casa Gola dall’Unia Teatr Niemozliwy, talmente impronunciabile da richiedere quattro interpreti per la presentazione di “Toporland”: come in una barzelletta (e con altrettanto effetto comico), un polacco, un italiano, uno spagnolo e un inglese hanno presentato la suite senza parole per cartone e contrabbasso ispirata al lavoro di Roland Topor e Johann Sebastian Bach.
In questo caso, il buio nel cortile di Casa Gola ha incorniciato l’originale e delicatissima essenzialità polacca: sottolineata da una musica trasparente, la performance ha visto protagonista un cartone che srotolandosi ha mostrato il suo disegno ininterrotto, in bianco e nero come a matita su un foglio, in apparentemente magica trasformazione.
Una narrazione tanto libera da essere universalmente comprensibile, come quella portata a Consonno da Other Spaces, i finlandesi che nel 2012 avevano “liberato” le renne in Brianza e che, quest’anno, sono tornati con un workshop sul corpo ad indagare l’espressione umana e animale: tra gli esercizi condotti, e replicati durante la performance “Olives and stones”, quello sulla caducità del corpo, inteso come un palazzo che crolla, è stato sicuramente l’esercizio di maggiore impatto, visto che lo stage era nella piazza di Consonno, città che, negli anni Sessanta e nella mente di un imprenditore brianzolo, doveva diventare il paese dei balocchi di cui oggi è rimasto solo il fantasma, un fatiscente scheletro in cemento armato e ferro arrugginito.
Più di un’ora di vero godimento (teatrale, certo) che solo due attrici diplomate – nel senso migliore del termine – possono sostenere senza scadere. Valentina Bergonzoni e Carolina Valeri – verrebbe voglia di ribattezzarle Valentina Scuderi e Carolina de la Calle Casanova – sono meritevoli di altrettanti riferimenti alla comicità maiuscola, quella intelligente, fissata in parte sulla carta e liberata dall’improvvisazione, che è un mestiere, guarda caso, non improvvisabile.
Come elaborato e pensato (bene) è stato il lavoro condotto dalla compagnia di danza Fattoria Vittadini che, sempre così tanto applaudita, evita volentieri il rischio del cambiamento, a meno che non si tratti di quello dei costumi in scena.
La compagnia milanese di danza, integrandosi nell’orto botanico di Valmadrera e negli spazi della corte del centro Fatebenefratelli, ha restituito al pubblico un’attuale interpretazione della più celebre “Passione”.
A seguire, “Entrare e uscire di scena”, l’ultimo spettacolo del festival, che ha chiuso questa nona edizione lasciando forse però aperta una porta, quella verso il resto dell’Europa teatrale, con uno spettacolo non da gran finale ma culturalmente significativo: Paolo Fagiolo, diretto dalla drammaturgia musicale di Andrea Gulli, ha interpretato un adattamento di “Uscire di scena”, pièce di Václav Havel, drammaturgo oltre che ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo presidente della Repubblica Ceca che, bandito dal teatro nel 1968, iniziò un’intensa attività politica culminata con la pubblicazione del manifesto Charta 77 (e anche con cinque anni di prigione). Nel testo è proprio un politico che, uscito di scena, rimane schiavo del peso della comunicazione verso l’esterno, contesto più intimo e familiare compresi.
E qui, l’ultima parte di quel filo che ha tenuto insieme un festival che si è tanto allontanato quanto cucito al suo territorio rimane libera, senza un nodo che la chiuda, in attesa di compiere un nuovo giro.