“In parole povere”. Intervista a Jon Fosse, drammaturgo di pause e silenzi

Jon Fosse

Jon FosseRoma. In un pomeriggio di novembre, che alle sei è già buio, entro nell’atrio dell’Hotel Columbus di via della Conciliazione, a due passi dal colonnato di San Pietro. Mi tolgo la sciarpa dal collo e, come la cosa più naturale del mondo, chiedo del signor Jon Fosse.
“Lo scrittore?” mi chiede la concierge. Lo scrittore, rispondo.

Faccio la conoscenza di quest’uomo massiccio, nordico, con la faccia acuta e attenta di un giovane cercatore. La sua parlata è viva, vivi i gesti delle sue mani. Si dice grato dell’attenzione che l’Italia gli sta dedicando. (L’interprete norvegese cerca di riprodurre fedelmente il suo entusiasmo).

Comincio parlando del suo libro, “Melancholia”, appena pubblicato in Italia da Fandango Libri. E’ la storia del pittore Lars Hertervig, “uno dei più famosi dell’Ottocento norvegese e nordico”, mi confermano, morto in un ospedale psichiatrico per disturbi nervosi. La sua è una storia di grande sofferenza che, attraverso la forma del monologo interiore, dà voce alla sensibilità alterata di un genio artistico.
La mia prima domanda, allora, indaga proprio quella sofferenza. Chiedo a Jon Fosse se, come artista, abbia idea (e quale) di una sofferenza simile. Risponde di no, che non è paragonabile. Anche se, specifica, “ho una tendenza alla depressione, quindi ho vissuto delle fasi di profondo dolore, superate in gran parte grazie ai farmaci”.

Sappiamo di Fosse che il suo approdo al teatro (casa base il Norske Teatret di Oslo, Premio Ibsen nel 1996) avviene dopo la pubblicazione di una quindicina di romanzi e racconti.
“Melancholia” si presenta come un dittico, è diviso in due parti molto nette, cronaca – ciascuna – di un periodo preciso dell’autodistruzione di Hertervig. È interessante, racconta l’autore, come la prima parte sia stata scritta “prima di quell’approdo al teatro. Dopo la prima parte non avevo più voglia di scrivere prosa. Avevo bisogno d’aria. Le coincidenze della vita mi portarono al teatro”. E dopo quell’esperienza “la seconda parte è stata semplice da scrivere, era il compimento di quella fase della mia vita che scrivevo in prosa, di cui mi ero stancato e che ero tornato ad affrontare solo grazie all’esperienza teatrale”.

Qual è differenza tra scrivere prosa e scrivere teatro? “È molto, molto diverso”. Fosse, che sente la drammaturgia molto più vicina a sé, racconta di aver scritto anche molta poesia. “La miglior definizione – spiega – l’ha data Garcia Lorca: ‘A play is a poem standing up‘, un testo teatrale è una poesia che sta in piedi, che si alza e cammina, che va con le proprie gambe”. Quelle “poesie che camminano” hanno permesso a Valter Malosti di vincere il Premio Ubu 2004 con la messinscena di “Inverno” di Fosse che, per definire la sensazione provata di fronte agli adattamenti delle proprie opere, spiega: “In qualche modo io scrivo delle canzoni. E le canzoni possono essere cantate in molte lingue, in molti modi, così come la musica, con molti arrangiamenti. L’unica cosa che mi importa è che venga bene – scherza – Se sento che ‘si alza’, come detto prima, la cosa mi rende felice. Se non è così…  si berrà un bicchiere insieme e sarà stato comunque un piacere”.

Chiedo poi a Jon Fosse di dire a Krapp’s Last Post la sua su Samuel Beckett, sul suo linguaggio di pause e silenzi, facilmente riconducibile a quello ritrovato anche nelle sue pièce. Qual è, per lui, la lezione del grande drammaturgo irlandese? “Ho imparato molto da Beckett, era il mio preferito. Il mio primo lavoro teatrale, ‘Qualcuno verrà’, era una risposta ad ‘Aspettando Godot’. Non puoi assomigliare a Beckett, è troppo forte, ma per lo stesso motivo è facile allontanarsene, non cadere nella tentazione di imitarlo”.

Ancora a proposito di Beckett, nei drammi di Fosse (ricordiamo, oltre a “Inverno” e “Qualcuno verrà”, “Sogno d’autunno”, “E la notte canta”, “La ragazza sul divano”) compare una grande povertà di parole usate. Del linguaggio si fa un uso sfilacciato, stressato, tendente alla ripetizione di certi concetti verso una rarefazione della comunicazione. A dare questo risultato, spiega lo scrittore, non è il tentativo di rappresentare un logoramento della comunicazione proprio della società contemporanea; alla base di simili scelte stilistiche c’è piuttosto la convinzione che “sono le parole singole, poche parole, quelle semplici e basilari, a dire le cose fondamentali, non la retorica, non le grandi frasi. E se il mio scrivere svela qualcosa, è proprio a quel livello semplice e basilare che voglio raggiungere il lettore, l’ascoltatore”.

Non vuole dare lezioni Jon Fosse, e scherza ricordando come in passato sia stato assistente universitario a Bergen, ma la sua esperienza di insegnante “è finita lì”. Agli aspiranti drammaturghi preferisce affidare un consiglio: “Ascoltare, ascoltare, ascoltare”.
Concludo così girando a lui questa stessa domanda: che cosa ‘ascolta’ con maggior passione? “Molti diversi autori”, risponde, ognuno dei quali lo ispira in modo differente. “Il mio ultimo lavoro è una trascrizione di ‘Faust’ per il Teatro di Stoccolma e ora sto rileggendo l’’Ifigenia in Aulide’ di Euripide. C’è sempre un motivo per cui i classici sono diventati classici”.

Vi lasciamo all’audio integrale dell’intervista di KLP a Jon Fosse realizzata sabato scorso.

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