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Le denunce di Julian Hetzel, tra arte e guerra

I’m Not Here Says the Void|Julian Hetzel|All inclusive

I’m Not Here Says the Void|Julian Hetzel|All inclusive

Arriva dalla Germania una delle grandi rivelazioni della Biennale Teatro 2019.
Julian Hetzel, giovane artista visivo, spazia in diversi campi, concentrandosi sulla composizione di un lavoro ibrido che abbraccia teatro e perfomance. Nel tentativo – riuscitissimo – di mostrare al pubblico italiano la parabola in ascesa di un artista poliedrico, radicalmente differente dal panorama nazionale, Antonio Latella presenta tre lavori: da “I’m not here says the void”, che costituisce la performance con cui Hetzel si diploma al DesArts di Amsterdam nel 2014, fino agli spettacoli più recenti, tutti per la prima volta in Italia.

“I’m not here says the void” è una performance sul vuoto. La scena, scarnissima, è abitata da due figure – tra cui lo stesso Hetzel – che agiscono e interagiscono senza incontrarsi mai veramente.
Le azioni sono inconsuete e, forse, non vogliono avere nemmeno una possibilità interpretativa; mirano piuttosto alla restituzione di una noia interiore, di una rarefazione di sentimenti che si riflette nell’estensione temporale con cui è scandito il tempo scenico.

I performer si ricoprono con un telo di plastica nero, dopo aver impiegato venti minuti per stenderlo a terra. Si incontrano su un divano e iniziano a distruggerlo fino a farlo a brandelli.
Che sia un lavoro sul vuoto, non c’è dubbio. Sembra esistere un flebile discorso sulla materia e sullo spazio, abitati da qualche energia, tant’è che una spazialità insolita viene ricercata sia nell’aderenza sotto al telo nero, sia nell’insinuarsi sotto alla copertura del linoleum del palco – letteralmente. Tuttavia, seppur carico di riferimenti alla storia dell’arte e sorretto da tempi che funzionano, il lavoro non è pienamente riuscito per i troppi ammiccamenti ad un aplomb da performance ricercata e poco vissuta come urgenza.
Lasciandosi trasportare dall’aspetto estetizzante e visivo, Hetzel sembra perdere di vista il contenuto.

Julian Hetzel

Tuttavia l’artista sorprende perché, in soli tre anni dal suo esordio, è in grado di compiere un vero salto pindarico. In “The automated sniper” riesce a costruire un lavoro complesso e stratificato, che non rinuncia all’estetica della performance, ma affonda le radici in una teatralità più potente.

Due performer – tra cui Claudio Ritfeld, già presente in “I’m not here says the void” – immersi in una scena che sembra un bianchissimo acquario, iniziano a raccogliere gli oggetti – o meglio, le ferraglie e gli scheletri di ciò che un tempo erano oggetti – e a comporli in sculture. Fino a presentare al pubblico l’accozzaglia ottenuta come se fosse una vera e propria opera d’arte.
Mentre i due si aggirano come grandi collezionisti in un famoso museo, si palesa una voce, che con tono da hostess di volo spiega il “gioco”.

Hetzel, dopo una prima frecciatina alla vacuità del mondo dell’arte, ci catapulta in un vero e proprio videogioco. La suadente voce femminile spiega come funziona la macchina che spara pallottole di colore, invitando un primo spettatore a partecipare. Questi è condotto oltre la scenografia e viene ripreso e proiettato live su parte di essa, così che sia visibile al pubblico, con una interessante operazione di stratificazione di schermi e visioni.
Se al primo giocatore viene richiesto di imparare ad usare il macchinario, tracciando una linea sul muro – che ovviamente diventerà una grande opera d’arte – progressivamente la violenza aumenta: prima viene ordinata la distruzione delle sculture e poi di sparare direttamente sui performer, con uno spostamento di immaginario. Siamo in guerra. La riflessione su come oggi sia possibile essere in guerra e attaccare il nemico da chilometri di distanza grazie all’uso della tecnologia e dei droni è portata all’estremo grazie ad un collegamento via satellite con un ragazzo di Baghdad appassionato di videogiochi, cui è richiesto di sparare in diretta sulla scena che, da museo, è diventata trincea.

L’idea è geniale, pertinente e toccante: non è l’Occidente ricco che spara sull’Oriente; la situazione è ribaltata. Ma nel tentativo di chiarire un po’ troppo per cercare forse un consenso più immediato, il ragazzo viene trattato con esagerata condiscendenza, fino alla frase: “Quindi preferisci sparare sullo schermo di un videogioco piuttosto che per strada?”.
Scivolare da pathos a patetico è un attimo. A parte certi ammiccamenti al consenso di pubblico, però, il lavoro ha una potenza disarmante e invita a riflettere sul tema con una modalità scenica originale ed efficace, mantenendo un equilibrio saldissimo tra scelte estetiche e scrittura di un certo spessore.

E’ però “All inclusive” il vero capolavoro dell’artista tedesco. Si ritrova un’ambientazione ai limiti dell’assurdo: siamo in un museo, con l’allestimento di una mostra personale dello stesso Hetzel.
La pièce inizia con un uomo che assume la posizione statica e plastica di una statua, continuamente disturbato da un altro soggetto che, con parecchia violenza e una vena erotica malcelata, lo obbliga a cambiare posizione. Il dialogo fisico continua fino a quando si intravede il disegno soggiacente: i due stanno ripetendo in loop le posizioni dei soggetti di alcune fotografie di guerra di fama mondiale. I gesti si ripetono all’infinito, fino a scorporarsi dall’originale e a diventare una danza ritmata e allegra. Un Occidente ad una distanza così siderale dagli orrori della guerra da pensare di trasformarla in arte, ballando sui dolori degli altri.

All inclusive

Entra la direttrice della struttura, che si presenta, e accoglie un gruppo di visitatori, tutti rifugiati da Paesi di guerra – un gruppo che cambia, per volontà dell’artista, ad ogni replica.
Con la semplice trovata di girare attorno alla parete bianca di fondo, che costituisce la scenografia, i ragazzi guidati dalla direttrice giungono in una nuova sala, prontamente allestita dai performer iniziali.
Il tema di un Occidente che cerca di estetizzare l’abominio della guerra, consapevole che basti – letteralmente – un sasso proveniente da un palazzo distrutto da un bombardamento in Siria per commuovere uno spettatore, torna insistentemente, qui portato all’estremo. Vediamo così macerie siriane, esplosioni ricreate in miniatura, descritti dalla direttrice con parole d’incanto.

È chiaro che lo spettacolo abbia un canovaccio di base, ma i migranti, che ne conoscono solo la struttura generale, sbaragliano ogni possibile testo pensato a priori. “Se ti piacciono così tanto le bombe, perché non ti trasferisci in Siria?” chiede uno dei ragazzi.
Certo, la portata dirompente di questa scelta perde un po’ d’efficacia per l’errore di non averli microfonati e spesso i loro interventi si perdono. Il climax ascendente continua tuttavia a salire fino ad un livello di parossismo capace di far sobbalzare dalla sedia.

Un’istallazione audio-video, che si attiva con la lettura dei visitatori, inizia a scrivere come sul tabellone di un aeroporto i numeri delle vittime siriane. Questi elenchi, riprodotti come fossero dei mantra, esplodono in un vero e proprio pezzo pop, con la direttrice che ammicca seducente e i guardasala che brandiscono microfoni come fossero mitra, dapprima per sostenere lo show con pezzi di beatbox e infine per giustiziarla.
Ma anche qui, subito, la piattaforma in cui si stava esibendo la vittima, ora imbrattata di sangue, viene ribaltata e appesa: il quadro viene messo all’asta al pubblico, e il corpo esanime non viene minimamente spostato, nemmeno per pulire le macchie rosse per terra: anch’esso è, nella logica malata di certa arte, opera.

Potrebbe sembrare un clima distopico, eppure basta ricordare il caso del piccolo Alan, fotografato ormai senza vita sulla riva del mare. Il dolore straziante di quell’immagine è diventato icona. Ma il confine tra vendere uno scatto perfetto in grado di raccontare una situazione e la privazione della dimensione intima e privata che un momento del genere richiederebbe è, nel nostro caro Occidente, molto sottile.
Mixando una serie di dispositivi di denuncia ad una precisione sottilissima di tempi drammaturgici, Hetzel riesce ad innescare uno spettacolo che è davvero esplosivo.

I’m not here says the void
regia Julian Hetzel
coreografia Michele Rizzo
con Claudio Ritfelt, Julian Hetzel
consulenza artistica Olivier Provily
drammaturgia Manolis Tsipos
costumi Gertjan Franciscus
luci Maika Knoblich
suono Le Schnigg
tecnico Vincent Beune
production management Jasper Hupkens
assistente di produzione Lea Kucovicic
divano IKEA
sviluppato a DasArts Amsterdam
produzione Ism & Heit Utrecht

durata: 60′
applausi del pubblico: 1’ 55’’

Visto a Venezia, Teatro alle Tese, il 3 agosto 2019
Prima italiana

 

 

The Automated Sniper
ideazione e regia Julian Hetzel
artista dispositivi Hannes Waldschütz
con Bas van Rijnsoever, Claudio Ritfeld, Ana Wild
giocatore Zaid Saad
drammaturgia Miguel Angel Melgares
collaborazione artistica Joachim Robbrecht
costumi Karianne Hoenderkamp
luci Nico de Rooij
produzione Frascati Theater Amsterdam
in collaborazione con Stichting Ism & Heit Utrecht
in coproduzione con Gessnerallee Zürich, Beursschouwburg Brussel, Göteborg dans & teater festival, Uzès Festival, WP Zimmer Antwerpen
con il supporto di Fonds Podium Kunsten

durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 2′ 40”

Visto a Venezia, Teatro Tese ai Soppalchi, il 4 agosto 2019
Prima italiana

 

 

All Inclusive
regia e ideazione Julian Hetzel
con Kristien de Proost, Edoardo Ripani, Geert Belpaeme e 5 attori in loco
drammaturgia Miguel Angel Melgares
consulenza artistica Sodja Lotker
costumi Anne-Catherine Kunz
produzione CAMPO Gent
in collaborazione con Stichting Ism & Heit Utrecht
in coproduzione con Frascati Amsterdam, Schauspiel Leipzig, Münchner Kammerspiele

durata: 2h

Visto a Venezia, Teatro alle Tese, il 2 agosto 2019
Prima italiana

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