Un grande contenitore scenico, opera di Nicolas Bovey, ‘delimita’ l'”Avaro” di Jurij Ferrini: tutto si svolge al suo interno, come in una casa di bambole, in cui gli attori si muovono come pupazzi perfetti dagli abiti sgargianti e classicamente impostati.
Il colore predominante delle pareti è però il nero, che lascia assaporare a fatica lo sfarzo della dimora signorile di Arpagone, l’unico in tinta con il salone principale dell’abitazione.
La compagnia è composta da giovani attori dello Stabile di Torino, quasi tutti sotto i trent’anni, personaggi stupefatti dalla assoluta e normale cattiveria del protagonista che si diverte nel privare la prole di qualsiasi piccola concretezza per il futuro.
L’Avaro molieriano viene spogliato di tutti i suoi orpelli per lasciarne ben in vista l’ossatura, spolpata di tutti i muscoli, in una sorta di radiografia teatrale che si limita a fotografare una situazione senza interventi decisivi al suo interno. Non c’è una vera e propria rivisitazione, e la traduzione del testo a cura di Sara Prencipe, che ha seguito con attenzione tutte le prove, lascia intatto il copione salvaguardando quei meccanismi di comicità e ritmo serrato che ben conosciamo. Gli intermezzi cantati lasciano invece spazio a fluorescenti siparietti di satira che proiettano il tutto in un mondo futuribile vicinissimo ai nostri peggiori incubi.
Incontriamo Jurij Ferrini poco prima dell’ultima replica dell’Avaro per l’apertura della stagione teatrale 2015-2016 di Novi Ligure, a pochi chilometri dalla sua Ovada e quindi a casa.
Vogliamo approfondire con lui quelle posizioni di critica decisa che l’attore e regista, fondatore del progetto URT, ha assunto da tempo, anche sui social, dopo che la sua compagnia è stata esclusa dai finanziamenti ministeriali del FUS, facendo discutere non solo in rete ma anche fuori.
Nella chiacchierata Ferrini si confronta in modo molto diretto, senza troppe formalità, e per questo parliamo anche della sua idea di teatro in un momento storico certamente complesso e distante da quegli anni Novanta che lo avevano consacrato come uno degli artisti più importanti del panorama teatrale che gravitava intorno allo Stabile di Genova.
Ti senti il capocomico della tua compagnia?
E’ una definizione che mi hanno affibbiato ma che mi piace, perché è quello che faccio. La mia idea di regia è molto legata alla recitazione e agli attori, senza troppi stravolgimenti ma con un serio ragionamento alle spalle. Secondo me negli ultimi venticinque anni o forse anche prima si è dato troppo spazio al teatro di sperimentazione, che ci deve essere e che va sostenuto di più, ma del quale non si può fare la normalità, altrimenti la tradizione che contesta si ripiega su sé stessa perché se ne smarrisce ogni traccia.
La comicità di Molière, ad esempio, è universale e sopravvive non solo ai secoli ma ai continenti, a popoli diversi. Siamo appena stati con l’Avaro in Cina e si sono sbellicati dal ridere pur avendo una cultura diversa rispetto alla nostra.
Come mai la Cina?
Lo Stabile di Torino l’anno scorso ha partecipato con uno spettacolo al Fringe di Pechino ed è nata una collaborazione. Noi però siamo andati a Wuzhen, un paesino a cento chilometri di Shangai dove in quel periodo c’era un festival mondiale di teatro.
Com’è il teatro in Cina?
In Cina c’è un grande investimento nella cultura e non si bada a spese. Il biglietto per venirci a vedere, ad esempio, costava settanta euro che per loro ne equivale circa a trecento.
Dell’Avaro di Molière ti interessa più il testo o il tema?
C’è di sicuro una voglia di far capire che non è solo un personaggio che sta sul palco, distante e grottesco ma un simbolo di qualcosa che poi si sarebbe diffuso in modo completamente diverso. Dal 1640 ad oggi il tema è cambiato completamente, diventando avarizia di sentimenti, di valori… Ci interessa raccontare anche questo aspetto. Detto ciò nel testo si riconosce una vera scrittura di un attore ed è meraviglioso scoprire che aveva ragione lui, perché i tempi e il ritmo sono ancora quelli e funzionano perfettamente senza bisogno di aggiungere altro.
Come fai a fare sia la regia che il protagonista?
Non lo so, ci vogliono ottimi collaboratori in un gioco che è per forza di squadra. Vince comunque l’attore, il regista c’è solo perché ci vuole qualcuno che risponda alla domanda “mettiamo questo o quest’altro oggetto?”. Le vere linee guida sono nella recitazione, nel “recitare con”, mi verrebbe quasi da dire che il regista non c’è proprio ma piuttosto c’è un capo branco, come in una rockband.
Quando hai fondato il progetto URT però volevi provocare una rottura rispetto al teatro classico…
Rifiutavamo le forme semplicemente perché non avevamo mezzi: è questa la verità. Magari è perché ora sono invecchiato, ma mi fa riflettere vedere i giovani che avvertono una teatralità vecchia e polverosa nell’ascoltare una voce impostata.
Passiamo alle tue recenti critiche alla ridistribuzione dei finanziamenti del Fus. Cos’è successo con la commissione prosa?
Alcune persone che hanno studiato teoria del teatro e che si sono laureate negli anni ‘70 hanno oggi posizioni di potere (in alcuni casi di stra-potere) spaventose. Non dico questo perché mi hanno tolto le sovvenzioni: va benissimo, sono soldi pubblici e non miei. Per farlo però hanno sostenuto, all’improvviso, che il nostro teatro non vale niente: abbiamo preso un punto su quattro, come prendere tre a scuola… E allora mi chiedo: per diciotto anni invece valevamo? E’ a questo punto, allora, che ci vedi la malafede. Poi, quando ci si mettono, i teatranti sono cattivi ed ecco che li hanno sommersi di ricorsi.
Per noi da un lato è stata una liberazione, perché quando prendevamo il contributo dal Ministero eravamo obbligati a fare 65 repliche, che voleva anche dire andare in tanti posti e rimetterci.
Oggi riusciamo a vendere mediamente una quarantina di repliche, le altre le facciamo quasi gratuitamente per decentrare e portare gli spettacoli anche nei piccoli centri.
Questa riforma premia invece la stanzialità, che costringe chi vive in provincia a recarsi nelle grandi città per andare a teatro.
Ma alla fine di tutte le polemiche di questi mesi, chi dovrebbe giudicare l’operato dei teatranti?
Prima di tutto il pubblico, che io riconosco come mio datore di lavoro perché paga di tasca sua e mi regala due ore della sua vita.
Cosa ne pensi di chi scrive oggi per il teatro?
Preferisco quelli morti da settant’anni, così il loro ego è scomparso e anche quello dei loro eredi. I drammaturghi dovrebbero avere la consapevolezza che saranno famosi solo dopo cinquecento anni…
Di me di sicuro non si ricorderà nessuno ma di loro magari sì, ed è lì che avranno la prova del loro valore: è inutile cercare la beatificazione in vita. Dovrebbero iniziare a leggere i classici, a lavorare con gli attori e soprattutto a prendersi meno sul serio… Vogliono essere glorificati su questa terra ma non esiste, non serve a niente. Molière ha fatto una vita terrificante da guitto, Shakespeare meno perché lui si occupava solo di riempire la sala inciampando nell’arte, era più hollywoodiano e per questo ha vissuto un po’ meglio. I drammaturghi di oggi mi sembrano un po’ troppo attaccati al successo, ma più lo inseguono meno lo ottengono.
L’AVARO
di Molière
traduzione: Sara Prencipe
con: Jurij Ferrini, Elena Aimone, Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Fabrizio Careddu, Sara Drago, Daniele Marmi, Raffaele Musella,Gloria Restuccia, Rebecca Rossetti, Michele Schiano Di Cola, Angelo Tronca
regia: Jurij Ferrini
scene: Nicolas Bovey
costumi: Alessio Rosati
luci: Lamberto Pirrone
suono: Gian Andrea Francescutti
coreografie: Rebecca Rossetti
regista assistente: Alberto Oliva
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale