Kanata. Lepage e Mnouchkine nella controversia della ‘questione autoctona’

Kanata (photo: Salvatore Pastore)|Kanata (photo: Salvatore Pastore)|Kanata (photo: Salvatore Pastore)
Kanata (photo: Salvatore Pastore)|Kanata (photo: Salvatore Pastore)|Kanata (photo: Salvatore Pastore)

La realtà è testarda, ironizzava Engels, cioè non si piega facilmente a interpretazioni di comodo, ma è urgente, ha le sue inevitabili dinamiche, si fa sentire.
Probabilmente proprio della realtà ha sentito la pressione Ariane Mnouchkine quando ha deciso di “prestare” a Robert Lepage i 35 attori della compagnia del Théâtre du Soleil per “Kanata – épisode 1 – La controverse”, già in scena a dicembre alla Cartoucherie di Vincennes a Parigi e da poco passato per l’Italia, con qualche adattamento tecnico, ospite in prima nazionale del Napoli Teatro Festival Italia 2019, dove ha giocato probabilmente il ruolo di spettacolo più atteso.

Anche il regista quebecchese, nella dinamica tra atto della narrazione e realtà narrata, preferisce sbilanciarsi verso l’ostinata matericità del secondo termine. Ci sono urgenze che necessitano di essere raccontate mediante una ricostruzione chiara, limpida, e uno spazio libero da formalismi a rischio distrazione: tutte caratteristiche evidenti nella messinscena napoletana, caratterizzata dall’inappuntabile perfezione formale di scene e luci, rispettivamente di Ariane Sauvé e Lucie Bazzo, dalla perfetta fluidità delle mutazioni a vista, dalla bellezza e cinematografica esattezza dei costumi e delle ambientazioni, dall’equilibrio degli interpreti, asciutti, chiari, senza fronzoli.
Tutti gli elementi tecnici rifuggono quindi senza tentennamenti da quell’essere tematici che avevamo denunciato in “Coltelli nelle galline”, e si limitano alla più essenziale delle funzioni, la compartecipazione al dispiegarsi del contenuto, della trama, nel complesso dei fili che la compongono.

Il tema centrale è quello, gigantesco, dell’approccio dell’Occidente all’Altro (tra colonizzazione, decolonizzazione, post-colonialismo), e moltissimi sono i sentieri narrativi che concorrono alla costruzione dell’ampio quadro. Il principale è però questo: una coppia di francesi, lei pittrice in cerca d’ispirazione, lui aspirante attore, si trasferiscono in un quartiere “caratteristico” di Vancouver per provare a raggiungere i rispettivi obiettivi, salvo ritrovarsi lui in un vicolo cieco (metaforico) per l’incapacità di superare l’accento francese, lei in un vicolo (vero) dove sperimenta un avvicinamento con le minoranze degradate del luogo e finisce lambita da un fatto di cronaca nera.

C’è, come nucleo, il ruolo degli autochtone, i discendenti delle popolazioni precoloniali che, come in tutto il continente, hanno subito sterminio, estirpamento culturale, ghettizzazione, e infine la più tipica delle condanne contemporanee, la riconversione a sottoproletariato urbano privo di prospettive (quella classe che, appunto, persino Marx escludeva dall’organizzazione rivoluzionaria) destinato alla sudditanza del sussidio statale, alla vulnerabilità della tossicodipendenza, della prostituzione, dell’abuso fisico. È questa la popolazione in cui Miranda si imbatte nel vicolo.

Al filo principale si annoda la fitta rete di temi connessi, ciascuno sempre incarnato in un medium narrativo: il tema delle dipendenze da oppiacei, delle strategie per controllarle o superarle, e quindi del commercio, storicamente attestato, di sostanze stupefacenti attraverso il Pacifico, dalla Cina degli schiavi dell’Ottocento imperialista fino alla contemporaneità; quello del ruolo dell’educazione cristiana nell’opera di annichilimento della cultura autoctona e addirittura nella sottrazione e ridistribuzione presso i bianchi di prole indigena; quello dei rapporti con la Cina dalle Guerre dell’Oppio alla riacquisizione di Hong Kong, enorme riserva di schiavi ed emissaria di teste di ponte che acquisiscono immobili e posizioni in Occidente. E c’è la questione dell’immigrazione ‘di qualità’, come qualcuno ancora si compiace di chiamarla; c’è il problema dei contesti, dei rapporti tra i diversissimi strati della popolazione che si ritrovano a vivere gomito a gomito negli alienanti melting-pot delle metropoli contemporanee, tra immigrati di diversa origine e formazione, degrado, impotenza degli organismi preposti al controllo delle emergenze.

Non mancano temi per così dire interni all’universo dello spettacolo: la marginalizzazione etnica nella distribuzione dei ruoli all’interno del sistema di intrattenimento angloamericano; la figura dell’attore vanesio che si dispera per una ‘r’ francese come contraltare del poliziotto che mette a frutto il laboratorio amatoriale per convincere un serial-killer alla confessione; e ancora decine di temi che il drammaturgo Michel Nadeau riesce a tenere insieme con una felicità di mano strabiliante, senza forzature, in una scrittura tersa e scorrevole, che unisce miracolosamente naturalismo e disponibilità allo sfogo evocativo–simbolico per il quale può bastare un accenno (tra gli alberi aggrediti dalle motoseghe in una scena iniziale, spunta un totem indigeno, che subisce la stessa sorte).

Kanata (photo: Salvatore Pastore)
Kanata (photo: Salvatore Pastore)

Punto di snodo della vicenda è però, come si anticipava, l’incontro di Miranda, la pittrice francese, con Tanya, una giovane prostituta tossicodipendente di origini autoctone, con la quale ha un paio di brevi e intensi scambi prima che quest’ultima venga uccisa da un allevatore, successivamente svelatosi serial-killer di giovani emarginate, attirate con la droga.
Dall’uccisione dell’amica, Miranda troverà il senso della propria permanenza a Vancouver, e inizierà a collaborare con la comunità di recupero della zona, alla quale finirà per proporre una mostra (superato il blocco dell’artista) con i propri ritratti delle donne uccise, tentando di chiudere il cerchio delle sue aspirazioni pittoriche e della sua nuova consapevolezza civile.

C’è dunque ancora, prepotente – perché siamo sempre noi a guardare l’altro – il problema dell’Europa che, smessi i panni di brutale motore della storia, si è ritagliata il ruolo di osservatore, che può ricamare a mente quasi fredda sulle imprese di quel suo passato, in un nuovo sfruttamento, questa volta di temi, per i propri divertissement artistici, o al massimo intervenire con operazioni di mero assistenzialismo.

Ma a questo punto accade qualcosa di imprevisto, che irrompe violento nella trama di “Kanata”: i genitori delle vittime si ribellano, inaspettatamente; vietano a Miranda l’esposizione del loro dolore, e la mostra sarà impedita.

E c’è anche qualcosa di più: il tema della visione dell’altro e della sua esposizione all’interno di un proprio sistema rappresentativo e di proprie logiche egoistiche non si accontenta di emergere nel testo, esso si fa immediatamente trampolino e si catapulta fuori dallo spazio scenico, nella realtà vera e viva degli oggetti che intende rappresentare, e del pubblico a cui intende farlo, insomma nelle circostanze attorno alla produzione dello spettacolo.

Dopo l’annuncio del tema del lavoro di Lepage e del Théâtre du Soleil, infatti, nell’estate del 2018 un gruppo di autochtone, supportato da personalità dell’arte e cultura native, fa pubblicare sul giornale LeDevoir una lettera in cui si attacca la compagnia di Mnouchkine.
L’accusa è di appropriazione indebita, nello specifico, di tre cose: della storia delle popolazioni autoctone, dei loro corpi (sostituiti in scena con attori di altra provenienza: “Notre invisibilité dans l’espace public, sur la scène, ne nous aide pas. Et cette invisibilité, madame Mnouchkine et monsieur Lepage ne semblent pas en tenir compte, car aucun membre de nos nations ne ferait partie de la pièce”), e infine dei finanziamenti destinati a “Progetti culturali in collaborazione con gli autochtone per la riconciliazione”, quando appunto nessun autoctono avrebbe partecipato al lavoro, se non informalmente, in un dialogo preliminare di cui non sarebbero state ben rintracciabili le modalità nel testo e nel corpo dell’intera operazione.

Insomma quell’autore, quel parlante ‘tecnico’, la forma, che un po’ sbrigativamente veniva fatto di espungere dall’evento-spettacolo, ecco che rientra con energia inaspettata sia dentro il testo che nell’evento, nella sua storia produttiva, non più sotto forma di artefice strutturante, ma sotto forma di contesto. Nessuna linearità espositiva può sottrarsi al contesto.

Ora, i filologi potranno raccontarci se il tema della mostra di pittura negata, il lungo monologo a proposito della storia dell’oppio in Canada e il paradossale esperimento di Miranda con gli allucinogeni, provati per sentirsi maggiormente coinvolta nell’esperienza delle prostitute uccise, fossero così evidenti nel testo pre-controversia, pre-lettera degli autochtone.
Ben più complesso sarà farsi un’idea della legittimità delle proteste autoctone – non di quella dell’atto artistico di Lepage, poiché l’arte non dovrebbe mai chiedere il permesso, ben sapendo di poter essere a buon diritto detestata, attaccata, ignorata.
Al critico, messo di fronte a testo e contesto, di certo rimane il dubbio su quale voce sia la più adatta a sfiorare una realtà storica, fermi restando i dati incontrovertibili: se sia l’autoctono il tramite migliore per il solo fatto di esser tale, di poter esporre ferite reali o geneticamente trasmesse, o chi invece dalla viva carne del vissuto è inevitabilmente e magari convenientemente distante.

Kanata (photo: Salvatore Pastore)
Kanata (photo: Salvatore Pastore)

In tutto ciò non smette di bruciare il contrasto tra la formale serenità dell’orchestrazione scenico-drammaturgica di “Kanata”, in cui – nuovamente – la tecnica spadroneggia, e il senso di un dolore patito su di sé (un sé altro, di cui non si vede il corpo né si ode la voce) che rimane senza un pubblico.
Infine, ancora, di più, esplode l’improvvisa constatazione che di quel dolore non avremmo avuto coscienza se non ci fosse stato evocato in contumacia da tutta la distaccata oggettività della messinscena di Lepage: come l’impressione di una cauterizzazione fallita, di un racconto impossibile, che forse costituiscono quel «resto di potenza» inespresso in ogni opera di cui parla Giorgio Agamben.

In definitiva, dalla complicata questione (su cui si può approfondire qui), rimane un fatto: che la testardaggine della realtà a cui si riferiva Engels non può limitarsi alle ‘cose dette’, e che, come tanti hanno ripetuto, l’occhio di chi guarda, la mano di chi scrive, l’orecchio di chi ascolta ne fanno pienamente parte, e occorre farci i conti come parti integranti dell’opera.

KANATA – ÉPISODE I – LA CONTROVERSE
con gli attori del Théâtre Du Soleil: Shaghayegh Beheshti, Vincent Mangado, Sylvain Jailloux, Omid Rawendah, Ghulam Reza Rajabi, Taher Baig, Aref Bahunar, Martial Jacques, Seear Kohi, Shafiq Kohi, Duccio Bellugi-Vannuccini, Sayed Ahmad Hashimi, Frédérique Voruz, Andrea Marchant, Astrid Grant O Judit Jancso, Jean-Sébastien Merle, Ana Dosse, Miguel Nogueira, Saboor Dilawar, Alice Milléquant, Agustin Letelier, Samir Abdul Jabbar Saed, Arman Saribekyan, Ya-Hui Liang, Nirupama Nityanandan, Camille Grandville, Aline Borsari O Marie-Jasmine Cocito, Man Waï Fok, Dominique Jambert, Sébastien Brottet-Michel O Maixence Bauduin, Eve Doe Bruce, Maurice Durozier
Regia Robert Lepage
Drammaturgia Michel Nadeau
Direzione Artistica Steve Blanchet
Scenografia E Accessori Ariane Sauvé, Con Benjamin Bottinelli, David Buizard, Martin Claude, Pascal Gallepe, Kaveh Kishipour, Etienne Lemasson Con L’aiuto Di Naweed Kohi, Thomas Verhaag, Clément Vernerey, Roland Zimmermann Pitture E Patine Elena Antsiferova, Xevi Ribas Con L’aiuto Di Sylvie Le Vessier, Lola Seiler, Mylène Meignier
Luci Lucie Bazzo Con Geoffroy Adragna, Lila Meynard
Musica Ludovic Bonnier
Suono Yann Lemêtre, Thérèse Spirli
Immagini E Proiezioni Pedro Pires Con Etienne Frayssinet, Antoine J. Chami, Thomas Lampis, Vincent Sanjivy Costumi Marie-Hélène Bouvet, Nathalie Thomas, Annie Tran
Aiuto Regia Lucile Cocito
Traduttrice Sottotitoli Lucia Leonardi
Operatrice Sottotitoli Suzana Thomaz
Produzione Théâtre Du Soleil E Le Festival D’automne À Paris
In Coproduzione Con Fondazione Campania Dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia Spettacolo Programmato In Collaborazione Con La Francia In Scena
Spettacolo Programmato In Collaborazione Con La Francia In Scena. La Francia In Scena, Stagione Artistica Dell’institut Français Italia, È Realizzata Su Iniziativa Dell’ambasciata Di Francia In Italia, Con Il Sostegno Dell’institut Français E Della Fondazione Nuovo Mecenati
spettacolo in francese con sovratitoli in italiano

durata: 2h 30’
applausi del pubblico: 2’ 30’’

Visto a Napoli, Teatro Politeama, il 29 giugno 2019
Prima nazionale

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