Kilowatt 2010, le prime scariche di energia

Roberto Scappin
Roberto Scappin
Roberto Scappin (photo: Paolo Lafratta)

La serata d’inaugurazione di Kilowatt 2010 è dedicata alle prime nazionali, le tre produzioni del festival, quelle che questo fuoco ardente di voglia (e bisogno) di fare ha deciso di infiammare con un sostegno non solo economico ma di sostanza, di attenzione, di partecipazione. Nel festival “del pubblico” tutto comincia in quella che, costruita in pieno Medioevo, fu la chiesa di Santa Chiara.
Renzo Francabandera espone la sua scena elettro-grafica. Accanto ai ritratti campeggiano, qua e là, cornici vuote. Verranno riempite delle creazioni più fresche, risultato di tutte queste sere di spettacoli. Ancora una volta qualcosa che evolve. Le opere del collettivo di artisti composto da Arianna Lerussi, Klaus Morgue, Alessandra Rinaudo, Marta Coletti e Giovanni Copelli oscillano tra fotografia e video-arte, tra cinema e collage, con qualche curioso esperimento di poesia, in un breve percorso che offre un degno contributo.

Ad aprire le danze è “Assolutamente solo”, definito dall’autore David Batignani “uno spettacolo di trasformismo”. L’artista porta in scena il vero padre affinché, per una volta, la pratica illusionistica superi se stessa e torni ad essere realtà. Allora, dopo l’incipit di “Lettera al padre” di Kafka, il doppio che caratterizza l’illusionismo sarà palesemente un trucco: nessuna magia, in scena ci sono dichiaratamente due attori: David e Mario Batignani. Figlio e padre. Una sorta di gioco dei sosia in cui uno si trasforma nell’altro, ci si cede il passo in una danza che non ha età. Il mio pensiero è “io non ho mai somigliato tanto a mio padre”. Ma qualcuno alla mia destra mi suggerisce, a ragione, che forse esiste una sorta di “età perfetta” in cui i due anelli si congiungono. Il risultato, in questo “Assolutamente solo”, è l’ingrediente fondamentale per creare una sorta di arabesco lirico che si prende gioco un po’ di tutto. Chi si aspettava uno spettacolo strabiliante, in cui chiedersi a ogni momento “come fa?”, è rimasto deluso, ché i trucchi sono pochi, prevedibili e neanche troppo bene eseguiti. Eppure il punto forse è proprio qui: uno spirito naif che impasta l’immagine in modo semplice, poetico. Qualcuno suggerisce il collegamento con il lavoro di Kantor, nel guardare a quel padre così serio e immobile, così smagrito ed emaciato, come a una personificazione della morte. Troverebbero ragione anche certe durate estenuanti – specialmente nella prima parte – che un po’ affossano il ritmo. Saremmo davanti a uno spettacolo che parla di morte e vita, un’operazione davvero sottile, del quale l’epilogo in cui i due danzano dolcemente, conducendo a turno, diventa la giusta chiusura. E quel “senso di morte” sopravvive fin nel mezzo degli applausi, che il giovane David accoglie con un sorriso, con accanto il vecchio Mario, impassibile maschera di cera.

Capotrave
è la compagnia-anfitrione. Luca Ricci ha preparato il suo “Virus” – secondo spettacolo della serata – come si fa in laboratorio, andando dritto per una strada radicale che per certi versi ha davvero poco a che fare con il teatro. Sceglie però, per dimostrare il risultato del suo esperimento, una location non adatta, che impedisce agli spettatori di godere appieno dello spettacolo, causa visuale limitata. Allora chi era seduto oltre metà sala non avrà avuto modo di seguire i movimenti nervosi e frenetici di Pietro Naglieri e Simone Faloppa, personaggi senza nome e senza parola che si inseguono in un sottosuolo infestato di topi. Io ho avuto la fortuna di assistere allo spettacolo in una sede più consona, il che mi permette ora di dire come sia interessante la scelta estrema di Lucia Franchi e Luca Ricci di usare solo torce per descrivere un’epidemia che sta divorando la città di chissà quale prossimo futuro. La struttura di tubi innocenti funge alla perfezione da scenario apocalittico, in cui il sottosuolo è l’unico mondo ancora al sicuro. Un mondo buio, minaccioso, ultimo. In “Virus” c’è azione, romanticismo, letteratura, visione, invenzione e forza performativa. Peccato che il risultato resti comunque chiuso in quello scantinato buio. Vediamo bene lo spettro della metafora, che inquadra i personaggi nella rappresentazione di un mondo in caduta libera, pone i topi e l’epidemia come simbolo di un epilogo di orrore e riassume in sguardi disperati e tentativi di suicidio l’unica relazione tra individualità. Eppure tutto o quasi si esaurisce qui. La domanda è se tutta questa forza visiva volesse davvero essere funzione di qualcosa oppure semplice esercizio di stile. Ora come ora il risultato sosta nel mezzo, in un vorrei-ma-non-lo-faccio che richiede forse ancora un po’ di lavoro per scegliere con sicurezza una strada e una sola.

A chiudere il cerchio c’è il lavoro di quotidiana.com, che lo scorso anno venne scelto come “gruppo da produrre”. Il loro “Sembra ma non soffro” riprende, mi dicono, un codice simile a quello del lavoro precedente, approfondendolo con una contestualizzazione più rigorosa. Un uomo e una donna (Roberto Scappin e Paola Vannoni) abitano un inginocchiatoio ciascuno e si lasciano andare a dialoghi che hanno piedi soffici per saltare dal nonsense all’iconoclastia, dall’ironia alla disillusione. La piccola trovata di porre un microfono panoramico che porta l’effetto-cattedrale è un sottile colpo di genio. Basta e avanza a creare un’atmosfera che non si rompe mai. La stanchezza ci si siede senza grazia sulle palpebre, ci ovatta le orecchie. E chissà, forse è anche questo stato alterato, di veglia sommaria, a darci l’idea che quelle parole si svolgano così bene. È teatro sussurrato, ipnotico, sottile. Forse anche un po’ compiaciuto, ma forte di una propria diversità. I due attori poggiano sulla stessa corda tesa, il loro dialogo sta comodo dentro uno humour nero che di questi tempi è raro.

Si comincia davvero a lavorare, aspettando e sperando nella scarica elettrica giusta.

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