Kilowatt 2020: 18 anni di sguardi visionari sul teatro

Kilowatt 2020|Photo: Elisa Nocentini
Kilowatt 2020|Photo: Elisa Nocentini

Da 18 anni il festival Kilowatt, che si svolge a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, è una vera e propria fucina dello sguardo, perché il suo stimolante programma, oltre che alla scelta oculata dei suoi direttori artistici Lucia Franchi e Luca Ricci, è formato con la collaborazione dei Visionari, una parte dei circa 400 spettatori comuni, disseminati per tutta Italia, che selezionano una serie di spettacoli, scelti tra i circa trecentocinquanta che, in campo nazionale, si sono presentati con un video attraverso un’apposita call.

Il risultato di questo lavoro ci offre la possibilità, ogni volta, attraverso diversissimi sguardi, di osservare una gamma veramente ampia di ciò che il teatro contemporaneo propone nel nostro Paese.

“Viaggio al termine della notte” è stato il titolo significativo dato dalla direzione a questa edizione del festival, mutuandolo dal famoso capolavoro di Céline, scelto come indice di speranza, in relazione al terribile momento che stiamo vivendo, e che il festival, pervicacemente, ha deciso di fronteggiare proponendo lo stesso, tra mille difficoltà, un’edizione coraggiosa, molto varia e interessante, che ha avuto come mentore- padrino Roberto Latini, che con i suoi interventi ha punteggiato tutta la manifestazione.

Il teatro anche in questa edizione ha permeato di sé tutto Sansepolcro per sette giorni: ci siamo mossi nella città di Piero della Francesca in un’atmosfera molto rilassata, confrontandoci con artisti e operatori, interagendo ogni mattina con le osservazioni acute dei Visionari sugli spettacoli della sera precedente e, l’ultimo giorno, partecipando ad un interessante convegno sulla funzione del Dramaturg nella danza contemporanea.

Non potremo parlare di tutti i 16 spettacoli visti nelle nostre quattro giornate di permanenza, ma cercheremo di soffermarci sui più particolari, su quelli che a noi sono parsi più interessanti come modalità e direzioni.

Molto intrigante ci è sembrato per esempio “Troia City, la verità sul caso Alexandros”, con la regia di Lino Musella.
Antonio Piccolo (autore anche del testo) e il musicista Marco Vidino (cordofoni e percussioni) ci raccontano, da una angolazione del tutto particolare, la storia di Troia, la città che nei secoli è morta e risorta ogni volta, portandoci a conoscenza di una vicenda a noi ignota, quella di Alexandros. Una storia che assomiglia ad una fiaba: il nostro protagonista, lasciato in fasce sul monte Ida per volere della madre Ecuba, moglie del re Priamo, a ragione di un’infausta predizione che lo indica come causa di distruzione della sua città, si salva da morte certa grazie all’accudimento di un’orsa, e divenuto adulto partecipa come schiavo ad un agone ginnico in onore di sé stesso, ovvero del figlio del re Priamo creduto morto, sconfiggendo il principe troiano, Deifobo.
Ma può uno schiavo vincere un premio ai danni di un principe? Può un destino avverso ricomporsi? E perché ciò avviene sempre con la violenza?
Alexandros, dopo essere stato finalmente riconosciuto come un principe, ritorna nella sua città, col giusto nome e onore che gli spettano, diventando poi testimone della sua distruzione da parte degli Achei col famoso tranello del cavallo, e in tal modo assecondando la profezia per la quale era stato abbandonato, ma al contempo uccidendo addirittura l’invincibile Achille.

Il progetto, nato su idea di Gian Maria Cervo, si ispira ai frammenti della tragedia a noi giunta incompiuta “Alessandro” di Euripide e vede in scena Antonio Piccolo che, sottolineando gli avvenimenti anche in greco, si finge una specie di professore con tanto di lavagna e gessetti, una sorta di detective che vuole ricomporre tutti i tasselli di una storia dimenticata.
Lo fa muovendosi tra passato e presente, paragonando Troia alla Milano dei gialli di Gianni Biondillo, testimone di “una città che non vuole morire e che, se muore, comunque rinasce, con orgoglio”, come Troia dunque.

Fra narrazione (bellissimo il contrappunto a suon di tamburo tra il duello tra Paride e Menelao e la lotta tra Alexandros ed Ettore) ed interpretazione compare anche il teatro di figura, con la distruzione di Illio costruita con la sabbia, che un semplice pezzo di carta infuocato rende con perfetta suggestione.

Lo spettacolo risultata alla fine essere una profonda, melanconica riflessione contemporanea sul destino dell’uomo e sulla sua imponderatezza, sul potere che ogni cosa condiziona e decide.

Photo: Elisa Nocentini
Photo: Elisa Nocentini

Solo in scena è invece l’ottimo Christian Di Domenico in “Eracle l’invisibile” del Teatro dei Borgia. Alighiero Borgia, dopo aver preso spunto da “Medea” di Euripide per lo spettacolo precedente, ambientato letteralmente in strada, su un furgoncino in movimento, anche qui si rifà ad un altro personaggio mitico, Ercole.

Immaginato da tutti come eroe possente ed invincibile, Ercole in realtà vive la sua esistenza sempre in balìa di un destino crudele; è un uomo talmente sofferente sulla terra che Zeus decide di collocarlo in cielo, sotto forma di costellazione.
Nello spettacolo, per contrappasso, il protagonista giunge per narrarci una storia altrettanto triste, ambientata ai nostri giorni: quella di un professore, buon padre di famiglia, marito felice, la cui vita si sgretola per un avvenimento imprevisto.
Licenziato, lasciato dalla moglie, vive nella sua macchina, agognando solo di rivedere la figlia perduta.

Attraverso la riscrittura di Fabrizio Sinisi, il protagonista diventa il forgotten man che vive ai margini della metropoli, dopo averne fatto parte come membro autorevole, riverberando anche la condizione del padre separato.
Pure qui, come succedeva in “Medea per strada”, lo spettacolo è immaginato in un luogo anomalo, in una tenda da primo soccorso, dove vengono di solito distribuite coperte e pasti caldi, che durante lo spettacolo Di Domenico prepara puntigliosamente, per un lavoro che sembra naturalmente semplice nel suo svolgersi, ma denso di una complessità che rimanda lo spettatore verso multiformi direzioni e suggestioni, anche attraverso una colonna sonora sempre significante.

Ci è piaciuto molto, nell’ultima giornata del festival, “Spezzato è il cuore della bellezza”, anteprima dell’ultima creazione della Piccola Compagnia Dammacco, uno spettacolo che parla di amore disilluso, ferito, ucciso e agognato attraverso le confessioni pubbliche di due donne, tasselli di un triangolo amoroso: lui, lei, l’altra, di cui, tra sofferenza spesso sarcastica e ironia, vengono sviscerate paure, illusioni e speranze.

Lui non parla, ma è ben presente non solo nei discorsi delle due donne, facce di una stessa medaglia, ma anche nei fantocci animati da Mariano Dammacco ed Erica Galante, che si aggirano sul palco.
Serena Balivo, come sempre bravissima, è a turno l’una e l’altra, è la tradita e al contempo il nuovo ingenuo amore, forse conscia che le toccherà la stessa sorte.

In ogni parola e nelle suggestioni poetiche che lo spettacolo di Mariano Dammacco ci regala anche fuori campo, riconosciamo perfettamente le gioie e i dolori, le conseguenze dell’amore, di questo sentimento così forte e nello stesso tempo così ambiguo e portatore di tormenti, come ben ci ricorda il Tasso nel finale dell’Aminta.

Molte e preziose anche le creazioni che si sono espresse al di là della parola. Il teatro di figura è stato presente nei nostri giorni di permanenza a Kilowatt con “Polvere”, uno degli esiti finali, ancora in divenire, del corso di alta formazione Animateria.
Gli intensi venti minuti di Giulio Bellotto e Annalisa Esposito, con la regia di Riccardo Reina, sono ambientati in una sorta di piccolo spazio aperto da tutti e quattro i lati: da qui si intravedono mucchietti di materiale bianco sbriciolato, con un uomo e una donna seduti l’uno di fianco all’altra, che mangiano lentamente pop corn.

Su di loro dall’alto cade della polvere bianca, mentre piccoli inquietanti rumori accompagnano l’intensificarsi della pioggia di polvere, destinata a coprire tutto e tutti; inutili i tentativi di pulire e raccoglierla. Anzi, sotto la polvere, piano piano, compaiono una mano e un braccio composti della stessa materia e, a un certo punto, ci accorgiamo che anche i due esseri umani si stanno trasformando. Una creazione dall’evidente derivazione beckettiana, ben costruita, che stimola la fantasia dello spettatore verso diverse direzioni.

Gli spettacoli di danza hanno avuto il loro apogeo con un bellissimo omaggio alla grande Isadora Duncan, che Klp aveva già visto a Rovereto. Il coreografo francese Jérôme Bell, che qualche anno fa a Lugano ci aveva invece molto infastidito, offrendo in modo autoreferenziale al pietismo del pubblico un gruppo di disabili, qui rende omaggio alla grande coreografa americana attraverso le movenze della quasi settantenne Elisabeth Schwartz, che in scena, in rapporto al racconto di Chiara Gallerani, che ripercorre la vita della grande artista, ci mostra le brevissime coreografie della Duncan, una delle fondatrici della danza moderna. È una danza leggera, fuori dagli schemi, in cui ogni gesto accompagna il sentimento che vuole esprimere.
Sul palco agli spettatori, alcuni dei quali invitati in scena a ripetere quei gesti, viene trasmesso intatto tutto il senso di libertà che quella danza sapeva (e che ancora oggi sa) esprimere.

In “Oriri” Paolo Rosini e Chiara Tosti ci trasportano invece in un mondo arcaico dove la vita germoglia in tutte le sue forme. Appaiono e scompaiono, tra luce e buio, due figure, due corpi di cui non percepiamo – nel loro continuo mutare – la reale consistenza, ma di cui avvertiamo il fascino incontrovertibile.
È una specie di cerimonia sacrale che la musica di Michele Mandrelli accompagna, rendendone palese l’atmosfera e la valenza.

Ripartiamo da Sansepolcro, con tante immagini e suggestioni. Ma ci torneremo ancora attraverso lo sguardo di Elisabetta Reale, nei prossimi giorni, riflettendo su “Stay Hungry” di Angelo Campolo, vincitore di Inbox 2020, che ha chiuso questa edizione del festival.

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