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“Kin” di Collettivo Amigdala. Come resistono le donne oggi? Intervista

Kin (ph: Marika Puicher)

Kin (ph: Marika Puicher)

Un percorso di riflessione femminista e di attivismo civico creato da Federica Rocchi, Serena Terranova, Meike Clarelli e Daina Pignatti

Siamo a OvestLab, ex officina artigiana divenuta oggi fabbrica civica nel cuore del villaggio artigiano di Modena Ovest. Qui abbiamo assistito a “Kin”, del Collettivo Amigdala, una performance vocale che si snoda tra “assemblea, coralità, improvvisazione e biografia”.
La restituzione scenica, affidata a dieci donne di eterogenea provenienza, testimonia di un progetto composito – nato nel marzo 2022 – e senz’altro molto interessante, che ha alle spalle un lungo cammino di gestazione e progettualità.
Per parlare di un progetto così articolato, che aveva debuttato al festival Periferico 2022, abbiamo pensato di intervistare le quattro ideatrici, Federica Rocchi, Serena Terranova, Meike Clarelli e Daina Pignatti. Ne è scaturita una riflessione riguardo tematiche stringenti, che ci toccano da molto vicino, ed è stata anche l’occasione per approfondire e meglio delineare il tipo di ricerca che Amigdala porta avanti da tempo.

Come è nata nel 2022 l’idea collettiva e tutta al femminile di “Kin”?
Serena Terranova: Il processo che ha portato al dispositivo performativo di “Kin” nasce da una call, lanciata nel marzo 2022 da Amigdala, per incontrare donne, o persone che si riconoscessero come tali, che avessero il desiderio di lavorare collettivamente sul tema della resistenza femminile. La call era aperta a chiunque, anche senza esperienza performativa, purché avesse una relazione positiva con il canto e con l’uso della voce.
Dalla call è emerso un gruppo di lavoro di undici donne con le quali si è dato vita a una piattaforma di dialogo, sperimentazione e confronto della durata di circa nove mesi. Uno spazio che ha ruotato attorno alla domanda: “Come si resiste oggi, da donne, insieme?”, ma che, a partire da questa, ne ha aperte e sondate moltissime altre, esplorandole sia attraverso sessioni di dialogo corale, sia attraverso le pratiche corporee del canto e del movimento. Il percorso ha intrecciato senza soluzione di continuità canto, movimento, conversazioni, autocoscienza e pratiche femministe, comunicazione non violenta, racconto di sé ed elaborazione del proprio percorso personale attorno al tema della resistenza, incontri con esperte e con altre artiste. Uno spazio di lunga durata che ha consentito la creazione di un’alleanza tra persone sconosciute, ma che, non scevro di conflitti e tensioni, è stato anche generativo di trasformazioni individuali e collettive, dando vita a quel cerchio di sedie che ha fondato il dispositivo performativo di “Kin”. Dalla pratica dello stare con e tra, è nata quindi la performance, un lavoro che si snoda tra assemblea, coralità, improvvisazione e biografia.

In che modo si inserisce con le pratiche portate avanti dal Collettivo Amigdala?
Federica Rocchi: Amigdala opera in un senso fortemente cross-disciplinare: nel nostro universo, accanto alla creazione artistica, convivono progetti curatoriali, come nel caso del festival internazionale di pratiche artistiche site-specific Periferico, o ricerche-azioni su territori, quartieri o spazi specifici che tengono insieme morfologia urbana, storia orale, arte pubblica. Una delle dimensioni primarie dell’intervento di Amigdala – trasversale a tutte queste dimensioni di lavoro – è riassumibile nell’idea di una continua e sempre nuova pratica di “generazione di collettività”: dare forma a collettività temporanee è una delle nostre principali linee di intervento. Le azioni cui Amigdala dà vita sono performance corali, azioni vocali collettive, attraversamenti dello spazio pubblico, redazioni partecipate, prese di parola da parte di collettività, archivi di fonti orali, dispositivi assembleari, costituzione di cori più o meno temporanei, comunità femminili che danno vita a parentele inedite. La voce, intesa nella sua duplice dimensione di voce cantata e di voce come spazio di espressione dell’unicità di ciascun sé incarnato, in risonanza con le altre voci e con il paesaggio, è uno degli elementi che maggiormente esploriamo, anche grazie al lavoro di Meike [Clarelli, ndr)] e alla sua ventennale ricerca in questo campo.
All’interno di questo universo, opera inoltre uno straordinario coro femminile e femminista, Le chemin des femmes, diretto da Meike da molti anni. Le chemin des femmes è un’esperienza vocale di livello altissimo, dove si esprime la resistenza che è misteriosamente insita nella voce delle donne attraverso un repertorio originale e del tutto specifico di questa esperienza, ma è al contempo anche un luogo di “sperimentazione umana”, uno spazio sicuro per un gruppo di donne per condividere, attraverso il canto, le vicende della vita, compresi i momenti più dolorosi e i lutti o le fasi più dure della maternità o della propria sessualità. KIN si inserisce dunque perfettamente in questa molteplice linea di ricerca e di interessi di Amigdala, tra voce femminile, pratiche femministe, generazione e attivazione di collettività.

Chi sono le dieci protagoniste e da dove arrivano?
S. T. Le dieci donne di “Kin” hanno provenienze e formazioni diverse. Alcune di loro arrivano dal coro Le Chemin des Femmes. Altre invece vengono dal mondo del teatro e della performance, e hanno fatto strade diverse, da Roma, Ravenna o dalla provincia di Pisa. Altre ancora sono insegnanti di scuola, cantanti di strada, insegnanti di yoga… una delle performer è una ragazza appena ventenne. Insomma, una provenienza davvero stratificata.
Le abbiamo incontrate tutte in occasione della call e nei giorni di laboratorio che abbiamo organizzato per inaugurare il processo che poi ci ha portato allo spettacolo. Ognuna di loro si è dedicata anima, voce e corpo all’intero processo. Hanno condiviso le proprie competenze artistiche e personali, e con il proprio pensiero hanno nutrito un tragitto che ha attraversato la musica, il canto, la parola scenica e la messa in gioco di pezzi di sé. Ognuna di loro ha anche portato le proprie riflessioni sui temi del femminismo e della resistenza oggi, condividendo domande, riflessioni, punti critici e anche contributi importanti dalle proprie esperienze.

Femminismo, attivismo civico, memoria culturale sono i temi attorno a cui avete lavorato.
F. R. Si tratta di tematiche profondamente connesse ad Amigdala e alle persone che vi lavorano, e che informano non solo i contenuti dei nostri progetti, ma anche il modo in cui questi progetti vengono ideati e portati avanti, nonché la cura dell’ecosistema relazionale all’interno dell’equipe. Il femminismo per noi è un orizzonte di senso e di reinvenzione necessaria del mondo, è un modo di fondare una nuova lingua, un sistema per forzare i limiti del modello patriarcale, oppressivo e imperialista, nel quale, come donne e artiste, siamo immerse. Un grande e continuo lavoro di interrogazione sottende al nostro fare, alla ricerca di modelli che ci consentano di imparare a pensare in termini de-coloniali, a tenere una postura verso la città, gli abitanti, le comunità locali di nutrimento e apprendimento continuo, a gestire le dinamiche del potere sia interne che esterne al gruppo – solo per fare qualche esempio, quelle che sottendono alle logiche di programmazione e di selezione delle e degli artisti quando programmiamo il festival, oppure quelle che riguardano gli squilibri di potere dentro al nostro gruppo di lavoro generati dal genere, dall’anzianità, dai ruoli. Su questi e altri nodi critici lavoriamo nel modo più trasparente possibile, o a volte anche provando ad hackerare i modi in cui questi habitus ci abitano e ci influenzano.

Come avete declinato questo percorso per “Kin”?
F. R. Il processo di lavoro di “Kin” è stato a tutti gli effetti un laboratorio femminista – o meglio transfemminista -, una pratica attivista, uno spazio di elaborazione di sé e della propria biografia di donna, nel contesto di una storia più ampia e più vasta che è quella che abbiamo scritto collettivamente. Il processo di “Kin” ha portato alla nascita di una vera e propria comunità femminista, non perché tutte le performer si riconoscano necessariamente in questa appartenenza, ma perché le pratiche e i modelli con i quali abbiamo intessuto le relazioni artistiche e umane sono state improntate il più possibile a quell’universo di pensiero. Durante tutto il percorso abbiamo adottato la pratica della conversazione, come modello orizzontale aperto e fluido per condividere pezzi di mondo, fissando e condividendo alcune regole. La prima e più importante era quella fondante delle forme di autocoscienza femministe: parlare a partire da sé. Ma sono stati molti gli esercizi di parola attorno ai quali ci siamo tutte misurate, a diversi livelli e per molti mesi: attuare una comunicazione non violenta, mettere in atto un ascolto profondo e radicale, prendersi la responsabilità di ciò che si dice e delle sue implicazioni, lavorare sul sessismo interiorizzato. Al contempo, abbiamo condiviso pezzi di noi attraverso le nostre biografie, i nostri saperi, le nostre storie. Tutto questo lavoro è depositato “sotto” al dispositivo di “Kin”; non è necessariamente sempre visibile, ma la performance finale non sarebbe stata possibile senza questa tessitura di relazioni, di storie personali, di memorie, di punti di vista molteplici.
Abbiamo costruito un orizzonte immaginario condiviso, un’alleanza che è passata attraverso condivisione, dinamiche relazionali, tensioni e conflitti e attraverso la potenza della relazione che è insita nel canto corale. Cantare in coro è una pratica potente di resistenza e di tessitura al contempo. Ha a che fare con l’incontrare l’altra su un piano diverso, più denso e preciso, fondendo la dimensione individuale con quella collettiva in modo non intellettuale ma in una forma incorporata e dunque diretta, non mediata.
Tutto questo si manifesta in scena nella possibilità di dare vita a conversazioni istantanee e improvvisate che poggiano su questa fiducia nella capacità del gruppo di gestire l’imprevisto, attraverso l’ascolto e seguendo una legge che è innanzi tutto di ordine musicale.

Kin (ph: Marika Puicher)

Come ha lavorato dal punto di vista della drammaturgia sonora Meike Clarelli?
Meike Clarelli: La drammaturgia sonora è divisa in tre parti di porzioni diverse. Una parte è scritta, dunque studiata, memorizzata e interpretata. L’altra è continuamente riadattata e riscoperta in scena. La terza è sconosciuta. Un mistero, anche per chi conduce.
Quindi una quota di scrittura è certa e solida, come ad esempio il Kyrie della Misa Criolla di Ramirez, una quota è conosciuta ma fluida (penso al brano originale Kin o al ri-arrangiamento di Papa don’t Preach), rimodellata al sempre nuovo ritmo della scena. La terza è una domanda aperta, un patto di amore con il ritmo e il silenzio, un caos che prova ad ordinarsi, o meglio a contenersi, nella musica e utilizza la Conduction.

Cos’è la Conduction?
M. C. È un linguaggio di segni che si sovrappone ad altri linguaggi in corso, contemporaneamente o al fianco, utilizzando un sistema di segni che si emancipa dalla forma dello spartito. Spesso si utilizzano le mani per comunicare all’ensemble – in questo caso di voci – questi segni, ma talvolta vengono adoperati altri dispositivi, anche di natura tecnologica. In molte delle tecniche di “conduction” chi comunica questi segni all’orchestra è il “conductor”, una sorta di direttore d’orchestra che funge da “improvvisatore guida” esterno. La presenza di un “conductor” è praticamente quasi sempre necessaria, anche quando la “conduction” prevede una forma di conduzione tra i musicisti stessi che compongono l’orchestra. La conduction è un pratica di responsabilità reciproca nella creazione collettiva di qualcosa, e ha il pregio di utilizzare alla massima potenza la “relazione e il dialogo” come forma di scrittura collettiva. La conduction che si vede in “Kin” non è quella magnifica e colta del grande Butch Morris, ma una versione ibrida e personale di Clarelli, e funge da piccolo paracadute nell’immenso vuoto che la musica regala tra una parola e l’altra o tra una nota e l’altra. Il naufragio è certo, ma non è proprio alla vista di una terribile tempesta che si approssima il momento più fertile per poter ascoltare ciò che è vivo? E dunque, come ho lavorato alla drammaturgia sonora? Evitando luoghi sicuri all’interno di quel cerchio di sedie.

Qual è stato il feedback da parte del pubblico?
F. R. “Kin” ha avuto per ora poche occasioni di incontro con il pubblico, e ognuna di esse è stato un momento importante per stabilizzare e definire la relazione del dispositivo con gli spettatori e le spettatrici. Direi che si tratta a tutti gli effetti di un rapporto ancora in divenire, che stiamo capendo di volta in volta. D’altro canto, l’elemento improvvisativo alla base del lavoro fa sì che ogni incontro con il pubblico sia completamente diverso, e che ogni “replica” – se così possiamo chiamarla – sia del tutto unica e irripetibile. In generale, ci pare di aver colto il fatto che si tratti di una performance che produce esiti abbastanza differenziati e che tende ad avere un effetto “divisivo” sul pubblico. Probabilmente perché ciascuna e ciascuno legge nel lavoro parti di sé, elementi conflittuali, aspetti che toccano la propria biografia o esperienza. È un lavoro nel quale è possibile rispecchiarsi, e come in uno specchio l’esito può essere più o meno spaventoso, consolatorio, minaccioso o elettrizzante. Molte persone hanno rilevato la sensazione ambigua di sentirsi intrusi in un dialogo che non li contempla, e al contempo sentire in diverse occasioni risuonare le parole delle performer durante le conversazioni dentro di sé, come voci interiori che parlano dalla propria storia e dal proprio posizionamento nel mondo.
Daina Pignatti: “Kin” è anche un percorso dello stare, del prendersi lo spazio con il proprio corpo, senza attendere alcuna concessione. Nel tempo lungo del processo abbiamo preso le nostre misure, le nostre masse, il nostro desiderio e li abbiamo posti lì, invitanti al dialogo. Un invito nudo, alla sola presenza, allo scoprire come il corpo, il pancreas, i ventricoli, reagiscono alle domande, alla semplicità dell’interrogarsi. A volte senza poesia, altre volte completamente immerse, siamo venute a patti col pudore generato dal mettere da parte il giudizio, col sudore, con le carni infiammate di voce, o desiderose di scomparire. Abbiamo tradotto linguaggi, in un continuo galleggiamento, e ogni volta invitiamo il pubblico a partecipare a questo galleggiamento, a porsi in ascolto, e sappiamo che per ascoltare non bastano le orecchie. Allora “Kin” ci invita ad ascoltare col nostro peso sulla sedia, col desiderio di alzarsi, con le parole che si appoggiano sulle labbra, e allora quel peso di ogni persona su ogni sedia diventa radicamento della musica che prende spazio.
F. R. C’è poi ovviamente una ricezione che si modifica anche in base al genere del pubblico: ci è parso di capire che tra uomini e donne si instaurino meccanismi di identificazione o di incomprensione diversi e molteplici, che rendono la fruizione del lavoro stratificata anche in base alle proprie esperienze con i generi e come esse risuonano nella propria biografia. Infine aggiungerei che il lavoro che si fa in scena sul canto ha anche una dimensione sensoriale: c’è una dimensione vibratoria forte che si produce nel cerchio di sedie e che investe tutte e tutti coloro che sono seduti lì, e che ha come effetto un’immersione completa, che a livello emotivo può essere molto accogliente oppure, al contrario, estraniante.

Come resistono le donne oggi?
S. T. La prima risposta che ci viene alla mente è tratta dallo straordinario libro di Adriana Cavarero, “A più voci”, in cui la filosofa (e una delle più grandi pensatrici del femminismo storico in Italia) scrive che la voce femminile è la risposta all’economia binaria dell’ordine patriarcale, che cataloga l’uomo nella sfera del pensiero e la donna in quella del corpo. La voce femminile per la Cavarero è un sito di resistenza, in quanto elemento che contraddistingue ciascuna donna nella propria unicità sessuata e nella fisicità della propria carne e la sottrae alla universalizzazione che ne rinchiude l’assoluta specificità in una categoria generale inesistente – quella della “Donna”. In questo senso, il femminismo italiano rispose proprio con l’esperienza dell’autocoscienza ai divieti patriarcali – uno spazio in cui il sé individuale viene alla parola e, prima ancora di condividere un significato, condivide la propria presenza politica, il proprio “partire da sé” come postura verso il mondo. Quello che abbiamo poi scoperto e sperimentato lungo il percorso di creazione è che la parola resistenza poteva essere trasformata in ri-esistenza. Questa piccola rivoluzione attorno alla domanda iniziale è stata generativa e ci ha permesso di esplorare strade non previste. Partire dalle domande è sano proprio per questo, perché non conta l’esattezza della risposta o la definizione di un risultato: il percorso che ci si permette di fare attraverso l’onda dell’interrogazione fa scoprire molte più cose di quante ne possano stare in un’unica risposta.
Tutte le domande che si trovano nello spettacolo, per esempio, possono essere ad oggi affiancate a questa, che per noi è stata la chiave di apertura di uno spazio, di un luogo di lavoro, di un tempo di condivisione tra donne. Come mai evitiamo sempre le domande sul sesso? Sei soddisfatta? Se dico “casa dolce casa”, tu che cosa dici? I temi dei discorsi che le donne di “Kin” portano avanti nel dispositivo non si generano solo dalle parole contenute dentro alle domande, ma dall’immaginario che ogni parola porta con sé.
Come resistono le donne oggi? Le donne resistono? Le donne ri-esistono? In che modo le donne sono donne, oggi? Ognuna e ognuno di noi può rispondere a questa e ad altre domande senza chiudere il discorso, ma aprendo, generando, mettendosi in gioco, mettendo l’accento su una parola o su un’altra. Quello che lo spettacolo ha provato a fare è stato offrire una possibilità da esplorare: un cerchio di presa di parola dedicato unicamente a quelle dieci donne e a nessun altro. “Kin” opera nel territorio dell’ascolto, chiedendo al pubblico un atto di immersione preciso e di disposizione all’attenzione. È un luogo in cui la resistenza si manifesta nel suo contrario, ovvero nell’abbandono. Alla musica, all’ascolto, alla presenza, all’improvvisazione, alla relazione con donne-cantanti-performer che sono solidali con te e a un pubblico che potrebbe non esserlo. La resistenza nasce da un’oppressione e mira alla conquista della libertà. E l’abbandono è, di fatto, una forma di libertà, un tipo di libertà che non viene presa facilmente.

KIN
di Collettivo Amigdala
ideazione Meike Clarelli, Daina Pignatti, Federica Rocchi, Serena Terranova
musiche originali, direzione del coro, drammaturgia sonora Meike Clarelli
movimenti di scena Daina Pignatti
dramaturg, cura dello spazio Federica Rocchi
disegno luci Eva Bruno
cura del materiale testuale Serena Terranova
con Anna Luigia Autiero, Antonella Barberio, Sara Bertolucci, Luisa Casasanta, Marta Cellamare, Beatrice Cevolani, Francesca Colli, Valeria Cruz, Elisabetta Dallargine, Elisabetta Punzi
produzione Collettivo Amigdala
con il supporto di Regione Emilia-Romagna, Settore Pari Opportunità
residenze artistiche inossevanza, Villa Aldini (Bologna)
con la collaborazione di Camilla de Concini, Federica Falancia, Gabriella Tritta
dedicato a Valeria Vicentini

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