L’Auditorium è una chiesa sconsacrata, nel complesso di Santa Chiara, edificio rinascimentale, antico, riattivato come crocevia di culture contemporanee. Ai due differenti spazi (il chiostro che ospita il palco grande esterno e la saletta per il ridotto al chiuso), dove vanno in scena gli spettacoli di Kilowatt 2011, si accede dal portale accanto. Un’ellisse da uno spiraglio aperto di sedie attorno a una multiforme installazione multicolor della mostra Kilow’art- Temporary gallery: Momenti di trascurabile sacralità.
È questa la forma attorno alla quale hanno preso corpo gli scambi di parole, tra intenzioni artistiche, sguardi non professionali, analisi critiche del triangolo visionari-compagnie-fiancheggiatori, nell’atmosfera da rito, rispettosa ma non pomposa, in cui sono stati proposti gli spettacoli della sezione dei Visionari.
23 luglio, ore 10:30. Sul lato destro sono seduti i Visionari e gli artisti. Non c’è fisiognomica che tenga. Nessun dato distintivo. Scruto e separo – con un’operazione di ricostruzione del personaggio – chi ho visto in scena dagli altri.
Luca Ricci, direttore del festival, è al vertice dell’ellissi, pronto con pacatezza decisa a dare inizio al rito. Noi Fiancheggiatori – in rigoroso ordine alfabetico: Sandro Avanzo (Radio Popolare), Alessandra Cava (Altre Velocità), Tommaso Chimenti (Scanner), Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin), Laura Palmieri (Rai Radio 3), Simona Polvani (Krapp’s Last Post), Roberto Rizzente (Hystrio), Roberto Rinaldi (Teatro.org), Nicola Viesti (Corriere del Mezzogiorno – Hystrio) – siamo concentrati tutti sull’ala sinistra. Una geometria che resisterà a tentativi elastici di sovvertimento, rimescolamento, commistione che si verificheranno negli incontri a seguire.
Introduzione di Luca Ricci con presentazioni di persone e ruoli, motivazione dei Visionari riguardo alla scelta degli spettacoli proposti e giudizio su aderenza o meno alle aspettative nate sulla base del video di venti minuti usato per la selezione; a seguire discussione dei Fiancheggiatori chiamati a mettere in luce i punti critici: ecco il format dell’incontro.
Una delle prime impressioni che capto nel candore dell’ellissi, in cui le sponde sono separate da un vuoto non attraversabile è che i critici non sono i nemici degli artisti e neppure i censori, ma una parte del dialogo. Siamo convocati a mettere in valore, spronare, setacciare oro, o metalli meno preziosi, dalla sabbia.
Al vaglio, in questo primo confronto, i lavori “Misfit Like a Clown”, drammaturgia e regia della napoletana Linda Dalisi, con Daniele Flor; “Leoni” di e con Matteo Fantoni e “Le ultime sette parole di Cristo” di e con Giovanni Scifoni e i musicisti Maurizio Picchiò e Stefano Carboncelli, andati in scena la sera precedente. Tre spettacoli declinati al maschile e al monologo, anche nell’accezione fisica di un corpo solo che danza.
Non risolto appare ancora lo spettacolo della Dalisi, nato da un progetto produttivo di notevole rilievo nel panorama italiano, ideato da Antonio Latella per il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli in collaborazione con Napoli Festival (e purtroppo interrotto con il nuovo corso del festival). L’incontro permette di apprendere informazioni più approfondite sul progetto.
Maurizio Picchiò ha una notevole presenza scenica, ma non sempre la commistione di parola e movimento è fluida. Adattare un testo letterario è sempre operazione complessa e la sintesi trovata dalla Dalisi nella drammaturgia, per rappresentare il tema del fondamentalismo amoroso, risente ancora a tratti della letterarietà del testo di Böll, mentre non del tutto incisiva appare la interrelazione tra il racconto degli affetti e dell’amore perduto e la dimensione più onirica e metaforica del gioco, nella fattispecie rappresentato dal tiro dei dadi -un dado gigante in scena- specchio della determinazione casuale della propria vita appesa agli affetti. Interessanti alcune soluzioni registiche, come l’uso del telefono dalle multicornette – veicolo di una comunicazione con il mondo, limitata e parziale – posizionato agli antipodi rispetto allo specchio, in cui ritrovare o perdere la propria immagine di sé. La prossimità e l’interrelazione con il pubblico potrebbero essere ancor meglio valorizzate.
“Leoni” – su cui i fiancheggiatori non hanno opinioni concordi – è un piccolo spettacolo di teatro fisico che nella sua fragilità ha una rara poesia. Fantoni con la sua danza, a tratti volutamente sgraziata, si allena al coraggio che la vita sembra pretendere, per ribaltare, come in un salto mortale, il senso di inadeguatezza, la paura, la fatica. Lo fa sul filo del commento mimetico (gestuale di standard, come “Ne me quitte pas” di Jacques Brel o “I Giardini di marzo” di Battisti), nella tessitura di un récit fisico emotivo dalle sfumature ironiche, comiche tragiche appassionatamente coniugate.
Il tema dello spettacolo di narrazione “Le ultime sette parole di Cristo” di per sé è accattivante: una demistificazione della religione cattolica e di vari luoghi comuni della fede secondo la dinamica del paradosso, un’esegesi delle ultime sette parole pronunciate da Cristo prima di morire. Giovanni Scifoni riesce a tenere in pugno la platea, ma spesso si ha l’impressione che lo Zelig televisivo sia sbarcato a Sansepolcro. Il rapporto con i musicisti (bravi) in scena non è articolato e il finale, che sembra chiudersi su una riaffermazione dell’esistenza di Dio, risulta non genuino e fin troppo pateticamente consolatorio.
Ore 17:30 – Ci spostiamo nel Palazzo Comunale e percepiamo la verticalità rinascimentale nell’ascesa verso la Sala del Consiglio, in cui viene consegnato il Premio Kilowatt | Ubulibri al Giovane Curatore, vinto per questa seconda edizione dalla ficcante Roberta Nicolai, curatrice del Festival Teatri di Vetro di Roma. Il premio è anche l’occasione per introdurre un incontro dedicato a Franco Quadri, focalizzato sul rapporto attento e fertile con le nuove generazioni. La sua voce è riprodotta da una clip audio realizzata da Laura Palmieri per la trasmissione andata in onda su Rai Radio 3 ad un mese dalla scomparsa del critico. E’ invece Edoardo Erba a restituirci la vitalità del rapporto con gli autori in uno sfilare di slide apparentemente incoerenti e didascalie che ripercorre le tappe attraverso cui si è costruito il rapporto umano e professionale dell’autore con l’editore. L’incontro, condotto da Oliviero Ponte di Pino con sveglietta alla mano e minutaggio di ogni intervento (lo guardo incantata e penso che dovrebbe essere sempre così) dribbla la retorica e la celebrazione. L’aggettivo che muove le labbra di tutti i partecipanti parlando di Quadri è curiosità. Una parola che metto in tasca come la mia caramella preferita, una rossa rossana.
Ore 21.15. Seconda terna di spettacoli. Ed è, purtroppo, una terna con due numeri su tre poco fortunati. La compagnia bolognese Instabili Vaganti propone “L’Eremita Contemporaneo”, spettacolo che – ci viene spiegato durante l’incontro visionari/compagnie/fiancheggiatori il giorno dopo – è ancora in fieri. Mentre il lavoro sul movimento e sul corpo appare interessante, il testo ,che dovrebbe riferirsi al tema del lavoro e al mondo operaio, ha sublimazioni che cozzano troppo con l’immaginario collettivo, e il parallelo tra artista e operaio, per come costruito drammaturgicamente, non convince.
“Viola”, del danzatore Marco D’Agostin, è una performance in venti minuti assolutamente riuscita. Il corpo da efebo di D’Agostin interpreta in un solo ben calibrato la perversione di un rapporto di potere uomo donna, costruendo un repertorio di gesti che vanno dallo strofinamento dei genitali, al dito succhiato, all’accarezzamento del sedere, con scatti, movimenti repentini, accelerazioni, addizionati di violenza. Gesti che nell’aria disegnano una donna, ricettacolo di sperma, saliva, sputi, come se ancora l’uomo non potesse sfuggire al meccanismo volgare del dominio – che passa prima di tutto dal sadismo sessuale – e la donna non potesse sottrarvisi. Una presenza che si materializza nella parte finale dello spettacolo quando, attraverso una sottile manipolazione fisica e visiva, il corpo di D’Agostin nudo, ma con i genitali maschili nascosti da uno slip ridottissimo, diventa donna, ci guarda, indietreggiando, in una luce diafana e angelica, pudica, e scompare.
“Ogni cosa viva – Morte e vita di Egon Schiele” della compagnia LAbit di Roma è invece uno spettacolo che non solo alla luce di quanto visto sul palco, ma anche delle dichiarazioni di intenti del regista Gabriele Linari durante il confronto del mattino, risulta un’operazione non riuscita.
La serata è particolarmente fredda ma il centro di Sansepolcro è animato. Ci si disperde con alcuni fiancheggiatori, le ragazze della Ubulibri, Edordo Erba. Il teatro si sposta davanti a una tisana calda e una birra ghiacciata.
Continua…
dario, fabio, scusate, non so che spettacolo abbiate o non abbiate visto voi, ma quello che ho visto io era davvero improponibile per intero, sia a livello registico che interpretativo. altro che “a tratti”.
ho visto questo spettacolo del Labit l’anno scorso a Roma al Teatro Due. Tra l’altro fu recensito (positivamente) proprio su KLP da Lo Gatto. Non entro nei dettagli, ognuno ha la propria opinione, sensibilità, gusto etc., e poi può anche darsi che la replica di kilowatt fosse giù di tono… non so, non c’ero… però definire la recitazione di Linari e Nigris “a tratti inascoltabile”… mah, davvero stento a crederlo, la Nigris è brava e Gabriele per me è uno dei migliori attori della scena romana. Ricordo inoltre che la versione che vidi aveva un lavoro sulle luci meraviglioso, mentre qui non se ne parla affatto.
Ciao Dario,
l’articolo, come viene dichiarato anche nel titolo, vuole essere una sorta di diario di quell’esperienza fatta come fiancheggiatrice e non una recensione puntuale di ogni spettacolo. Quindi, non essermi dilungata nel fornire particolari sullo spettacolo era una scelta ben precisa e non certo una questione di spazio. Mi sembrava di aver già detto tutto quello che potevo -o volevo -dire su quello spettacolo. Non ritenevo opportuno dedicargli più spazio. Comunque, dato che ne fai espressa rischiesta, rispondendo a una sorta di dovere o piacere di cronoca posso aggiungere questo:
“Ogni cosa viva – Morte e vita di Egon Schiele” della compagnia LAbit porta in scena la vita privata e artistica del pittore Schiele focalizzando la sua attenzione sul rapporto morboso che lo legava alle sue donne, la sorella, prima, le sue due amanti dopo, l’ultima delle quali diventa anche sua moglie. Le tre figure femminili sono interpretate dall’attrice Ippolita Nigris Cosattini, che passa da un ruolo all’altro attraverso ripetute vestizioni e denudazioni. I due interpreti sono ripresi da una telecamera a infrarossi che proietta la loro immagine su uno schermo sul fondo del palco. Non c’è però alcuno scarto, alcuna produzione di senso ulteriore dall’uso di questo apparato tecnologico, che risalta come inutile. La recitazione, con dei toni,in particolare nei personaggio di Shiele, lagnosi e striduli, è a tratti inascoltabile. Molte scene che dovrebbero avere toni drammatici, come la scena della morte di Schiele, con un’agonia al rallentatore, ripetuta, prolungata per almeno 5 minuti, oltre a evidenziare la perigliosità della riproduzione realistica della morte in scena, ha purtroppo sortito effetti comici nella platea. Potrei aggiungere altro, ma direi che può bastare. A presto. S.
“operazione non riuscita” PUNTO!?!?
BAH!
ho capito che ne avete parlato tra voi, ma vogliamo rendere partecipi anche noi lettori?
erano rimaste poche righe?
bah!