Ci si trova subito proiettati in una dimensione intima, entrando nello spazio scenico di “Koszeg”. Linee e frecce disegnate sul pavimento suddividono lo spazio in ulteriori zone, che verranno animate dai vari momenti della performance, facendo pensare un po’ alla struttura scenica di “Dogville” di Lars von Trier. Le linee circoscrivono quadri completamente vuoti così come zone allestite: la città di Koszeg, realizzata con scatole di cartone; tavolini con candele accese e soldatini di guerra, mentre un lungo tavolo, con un corpo nudo ricoperto da un telo, occupa la parte centrale. Sopra di esso è appeso Il grande quaderno.
Ledwina Costantini (attrice e regista) si fa trovare in piedi, dinnanzi alla “piccola città”, con un modellino di una casa di cartone in mano e uno sguardo perso nel vuoto.
All’entrata gli spettatori ricevono un foglio di istruzioni per la performance, e viene dato un tempo, prima dell’inizio, per lasciarli muovere liberamente nello spazio, ed osservare ogni dettaglio dell’allestimento, in modo da entrare gradualmente in una realtà ben precisa, quella austera e cruda della seconda guerra mondiale.
La tenue illuminazione, fatta solo di poche deboli luci, oltre a quella delle candele, rende l’atmosfera ancora più rarefatta, ed enfatizza il clima cupo di guerra.
L’azione inizia con una sorta di rituale, in cui la donna aiuta a vestire il fratello (il corpo disteso nudo sul tavolo), avvolta in un’espressione severa, quasi sacrale, mentre il silenzio è interrotto da alcuni canti gregoriani in sottofondo.
La voce fuori campo di una bambina inizia a raccontare la vita dei due fratelli. È asettica e monotono, completamente priva di modulazione. Siamo nella “Trilogia della città di K”, il capolavoro semi-autobiografico di Agota Kristof, inquietante ed enigmatica scrittrice ungherese, naturalizzata Svizzera, che con il suo stile implacabile, accattivante e minimalista ha segnato un importante capitolo della letteratura moderna.
La scelta di Opera retablO, compagnia svizzera che si muove fra teatro, performance, arti visive, musica e poesia, è quella di seguire in qualche modo il linguaggio della Kristof, decidendo di non utilizzare parole in scena, al di fuori della voce registrata che recita brani tratti dal romanzo. Perché le parole sono ingannevoli e vanno selezionate, depurate da tutto il superfluo, e alla fine risultano ancora ingombranti. Le parole tradiscono.
Sono due maschi i personaggi del libro, anche se la performance è forse più vicina alla realtà dell’autrice, che si è ispirata alla propria infanzia, condivisa con l’amato fratello, ma che nei suoi romanzi diventa spesso personaggio maschile (lo fa anche nel romanzo “Ieri”, dove racconta la propria esperienza di solitudine, nei primi anni dell’esilio, attraverso il protagonista, Tobias, imprigionato nella corsa quotidiana del lavoro in fabbrica).
Gli attori si muovono con destrezza e padronanza espressiva tra il pubblico, costretto a spostarsi continuamente da un quadro all’altro per far spazio o per seguire le dinamiche della performance. Si arriva a sfiorarli, a guardarli negli occhi, e ci si sente veramente trascinati in quella realtà, contaminati da un tipo di realismo imposto da circostanze disarmanti. Riescono a rendere perfettamente le immagini del racconto, con straordinaria lucidità e azioni dal forte impatto che arrivano al pubblico come una doccia fredda.
I racconti della bambina si susseguono fedeli al romanzo, con una ritmica che accompagna i due attori nella costruzione di un immaginario crudo e anaffettivo. I due fratelli, costretti a vivere per necessità di sopravvivenza a casa di una nonna bestializzata e distopica, forgiano il proprio carattere educandosi a vicenda, in un esercizio quotidiano di resilienza, nichilismo e trascendenza rispetto alle necessità terrene o di resistenza nei confronti della crudeltà della realtà che li circonda. Una realtà disumanizzante e feroce, che ruba l’innocenza ai due ragazzi, rendendoli insensibili a qualsiasi barbarie, e immuni ai pericolosi effetti di ogni sentimentalismo, “perché il verbo amare è un verbo non sicuro”.
È soprattutto nei dettagli che si nota quella contaminazione artistica che caratterizza la ricerca linguistica di Opera retablO, e che arricchiscono la performance di vita propria: il costume di “labbro leporino”, uno dei capitoli più scomodi del libro; la ricerca tra i rifiuti di oggetti da salvare dopo un bombardamento; la scelta delle musiche, il realismo con cui vengono interpretate alcune scene.
I bravissimi Ledwina Costantini e Daniele Bernardi evocano immagini che vanno ben oltre i silenzi, e che rendono perfettamente con sfumature espressive e con un ritmo fluente che non cede mai al respiro. Fermarsi, è perdere.
Tema centrale della performance è sicuramente quello dell’identità, e come questa venga plasmata dalle circostanze. Non è la crudeltà degli eventi in sé a turbarci, ma il distacco nei confronti della crudeltà. Il racconto dei due fratelli è cosi spiazzante perché vissuto in modo cinicamente necessario, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non c’è autocommiserazione, né disperazione, ma constatazione dei fatti e accettazione, senza venire mai meno alla propria dignità.
Il brano “Désobéissance Civile” di Keny Arkana ci riporta infine ai giorni nostri, in un momento catartico di ribellione, in cui i due attori distruggono la città di cartone. È immediato il parallelo con le realtà degli attuali migranti, soggetti alle medesime problematiche che la stessa Kristof si trovò ad affrontare. Realtà menomate da guerre e violenza, fatte di solitudine e incomunicabilità, dove una nuova identità diventa necessità di sopravvivenza, e per farlo, devi un po’ uccidere la vecchia. Ma potremmo anche essere in una delle tante periferie, moderne giungle di asfalto incubatrici di degrado e radicalizzazione, dai ritmi cadenzati da una costante lotta alla sopravvivenza. Un finale che ci costringe a guardare al percorso – purtroppo fallimentare – della storia contemporanea.
Lo spettacolo viene presentato nell’ambito della rassegna “Della morte e del morire” che prosegue alla Tenuta dello Scompiglio fino a dicembre 2019. Prima di assistervi visitiamo l’installazione “Camera #5” di Cecilia Bertoni, e assistiamo al documentario “Diamanti” di Miriam Gili, quest’ultimo realizzato sulla compagnia svizzera Algordanza, specializzata nella creazione di diamanti dalle ceneri di cremazione delle persone estinte. Una visione sulla morte come continuazione e trasformazione del corpo, che va ad assumere un concetto totalmente diverso diventando un oggetto del desiderio, e che lascia ampio respiro ad una riflessione sul corpo, sulla legge di conservazione della massa e sulle infinite possibilità del divenire. Anche l’installazione della Bertoni è un’indagine sulla morte e sulla sua necessità, partendo però dalla scrittura del proprio testamento. Una stanza semi-buia, ricoperta di sale, in cui può accedere uno spettatore alla volta, offre un percorso sonoro più che visivo (il rumore dei propri passi sul sale, il gocciolio dell’acqua ad una parete, un suono che irrompe a rappresentare molto probabilmente la morte stessa). È una dimensione che già appare come interpretazione di un luogo altro, di post-morte, ma anche di pace e di raccoglimento.
Koszeg
Una creazione Opera retablO
Regia Ledwina Costantini
Di e con Daniele Bernardi e Ledwina Costantini
Costume Caterina Foletti
Video Massimiliano Rossetto
Fotografie Sara Pellegrini, Stefano Sergi e Ivana Ziello
Produzione Opera retablo
In coproduzione con Teatro Sociale Bellinzona
Spettacolo creato con il sostegno di Repubblica e Cantone Ticino – Fondo Swisslos, Pro Helvetia; Tognetti /Auto SA; Cartesio SA
Visto a Capannori (LU), Tenuta Dello Scompiglio, il 28 settembre 2019