Il Kristo di Roberto Zappalà: un gorgo di parole inghiotte la danza

Kristo (photo: Serena Nicoletti)
Kristo (photo: Serena Nicoletti)

A MilanOltre il debutto del nuovo spettacolo che affida i testi a Nello Calabrò e vede in scena Massimo Trombetta, ma la struttura della performance non convince

Diceva Pier Paolo Pasolini che il critico ha tutti i diritti tranne uno: quello di non capire. Ma che cosa succede quando a dare l’impressione di non capire è l’artista? Quando l’artista sembra approcciare in modo superficiale e senza chiaroscuri il soggetto che mette in scena?

È quello che abbiamo pensato assistendo a “Kristo”, ultimo lavoro di Roberto Zappalà presentato all’Elfo Puccini per il festival di danza MilanOLTRE, la cui 36^ edizione prosegue fino al 16 ottobre con la direzione artistica di Rino Achille De Pace.

“Kristo” è un lavoro ambivalente partendo dal titolo. La “K” iniziale al posto della “C”, ricorda scenari da Anni di Piombo, quando l’allora Ministro Cossiga era stigmatizzato dai suoi denigratori con la K iniziale nel cognome (e la doppia S nazista in stile runico), in quanto ritenuto personaggio torbido e depositario di segreti inquietanti: Kossiga il matto; Kossiga il picconatore.

Matto e picconatore è anche il protagonista di questo spettacolo di danza e parole, interpretato da Massimo Trombetta. Al centro della scena un gabinetto: lo scorgiamo prima dell’inizio dello spettacolo, dietro il sipario semiaperto, come fosse un tabernacolo o un ostensorio. Dopodiché arriva un personaggio che è la parodia di Cristo, e come i pani e i pesci si automoltiplica in varie controfigure.

Mille volti di sé. È Gesù. O forse l’anticristo. È solo un povero cristo. È un millantatore. È un folle, che sogna o desidera di essere Cristo.

Con Nello Calabrò curatore dei testi e l’aiuto di pensieri d’autore spulciati qua e là, Zappalà propone un Cristo aberrante: un Dio che se fosse tale non ci farebbe defecare; un Cristo scaltro, che ha avuto successo perché aveva al seguito un nugolo di donne benestanti. E allora appaiono a intervalli, sulla scena, dodici donne come gli apostoli, in versione ora monaca sadomaso, ora pia donna bigotta, ora cameriera ammiccante. Anzi, le donne in scena nell’occasione sono undici, e sul foglio di scena non ci sono neppure i nomi, a sottolinearne l’irrilevanza. Forse sono undici perché una ha tradito, come Giuda, come questo spettacolo che tradisce i Vangeli e soprattutto il dovere dell’arte di ricercare e approfondire l’essenza di quanto scandaglia, lontano da stereotipi e letture ideologiche. Andare “oltre”, come suggerisce il titolo del festival.

Peccato che i Vangeli non facciano che insistere sulle frequentazioni poco raccomandabili di Cristo anche tra le donne, poveracce, epilettiche, indemoniate, emorroisse e prostitute. Altro che aristocratiche. Una di loro, Cristo la salvò dalla lapidazione: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra».

Zappalà invece le pietra le tira, e contestualmente nasconde la mano. Tira le pietre perché in questa drammaturgia raffazzonata sbeffeggia tutto, dal “Padre nostro” (citando fuori contesto Hemingway) al “Discorso delle beatitudini”. Ma nasconde la mano, avendo precisato nelle note di regia che il protagonista è «un uomo che è anche Cristo, Cristo che è anche un uomo, un pazzo che si crede Cristo, Cristo impazzito che crede di essere un uomo, un uomo che finge di essere Cristo […] Un uomo/cristo dotato di autoironia e di dubbi, un poco smemorato e anche vanitoso. Consapevole di possedere un corpo e che forse soffre di un disturbo di personalità multipla».

Insomma, un Cristo «uno, nessuno e centomila», per dirla in termini pirandelliani. E che come nell’“Enrico IV” di Pirandello, dietro la maschera della follia vera o presunta, può dire e fare tutto ciò che gli pare.

Metti in scena un pazzo, e fai quello che vuoi. Della serie «ti piace vincere facile». E invece sarebbe stato più interessante esplorare la pazzia reale di Cristo, il Cristo blasfemo che umanizzava e rendeva fragile la divinità, violava il sabato e il codice farisaico, frequentava i paria dell’epoca, frantumava il postulato dell’immortalità di Dio, e faceva di una donna mortale, Maria, l’apice della perfezione in un’epoca in cui le donne contavano zero. Insomma, nei Vangeli le donne erano tutt’altro che delle comparse di cui si poteva cancellare il nome.

La verità è che il “Kristo” di Zappalà lancia tanti input come pietre, senza mandarne a segno nessuno. Non ha un’idea forte, e si attacca a una sfilza di citazioni sciorinate in modalità estrazione della lotteria o baci Perugina. Di conseguenza, anche la scena diventa spazio multicaotico: casa a soqquadro, chiesa sguarnita, palestra sgualcita.

Non intendiamo buttare il bambino con l’acqua sporca. Le luci caravaggesche di questo spettacolo sono stupende, così come alcuni effetti scenici, tipo i fumi usati in abbondanza. Il tappeto sonoro è un contrappunto coinvolgente. Le coreografie hanno una loro bellezza, ma si traducono in semplici esercizi di stile, fagocitati da un testo verboso. Può bastare?
Dal sacro, al massacro. Dalla lapidazione al rischio di dilapidare un capitale di credibilità. Da una compagnia di danza pluripremiata, apprezzata in Europa e anche sulle pagine di questa rivista, ci attendiamo altro.

“Kristo” è uno spettacolo sterilmente iconoclasta. Vorrebbe forse essere dissacrante, finisce per essere grossolano e volgare. Citazioni a manetta fuori contesto, e pertanto inappropriate, giustapposte, svilite dentro un mare che tutto copre. Il colmo è quando si cita “Devo molto a quelli che non amo”, sublime poesia sull’amicizia di Wislawa Szymborska, che qui, nel montaggio rabberciato e tendenzioso, si trasforma in inno al cinismo e alla misantropia.

In “Kristo” la morale capovolta dei dieci comandamenti non ha nulla delle profondità della “Buona Novella” di Fabrizio De André, che aveva fatto ricorso ai Vangeli apocrifi. Il povero cristo in scena non incrocia mai il senso del mistero dell’antidogmatico “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, e neppure gli slanci ugualitari del “Nuovo vangelo” di Milo Rau. Non c’è lo struggente bisogno di normalità che avevamo apprezzato in Martin Scorsese. Nulla neppure dell’indagine critica che rendeva intrigante nell’Ottocento l’eretica “Vita di Gesù” di Ernest Renan.

«La maggioranza degli esseri umani non si rende conto di avere un’anima, ascolta solo il proprio corpo», osservava Franco Battiato, catanese come Zappalà. Troviamo questo lavoro inconsistente non perché siamo credenti noi, ma perché non è credibile esso. In scena c’è un’estetica, ma manca un’etica. Manca l’umiltà nell’accostare il tema, proprio quella che permea i Vangeli.

Dice il Corano: «Se quello che hai da dire non è più importante del silenzio, allora taci». Abbiamo sempre apprezzato il silenzio pieno di parole della danza di Zappalà. Nel frastuono parolaio di questo lavoro, troviamo invece solo confusione.

Forse “Kristo” avrebbe detto qualcosa limitandosi al potere della danza, che rende tutto più sfumato e pudico. Asseriva Giovanni Verga, un altro catanese ancora: «Fa’ il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai».

KRISTO – QUADRI DI DUBBIA SAGGEZZA
testi a cura di Nello Calabrò
interprete e collaborazione Massimo Trombetta (doppio cast /Salvatore Romania)
con la partecipazione di alcune donne in transito
musiche originali e tappeto sonoro l’écume des jours
set, luci e costumi Roberto Zappalà
assistente coreografo Fernando Roldan Ferrer
direzione tecnica Sammy Torrisi
ingegnere del suono Gaetano Leonardi
realizzazione elementi di scena Luigi Pattavina
una coproduzione Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza Centro di rilevante interesse nazionale e Teatro Stabile di Catania
in collaborazione con MILANoLTRE Festival
con il sostegno di MIC Ministero della Cultura e Regione Siciliana Ass.to del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo

durata: 1h 10’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Milano, Teatro Elfo Puccini, il 7 ottobre 2022
Prima nazionale

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