Sono molte le giovani compagnie che si sono affacciate in questi ultimi anni nel grande-piccolo mondo del teatro italiano, cercando di creare una propria identità che le facesse riconoscere al pubblico di operatori e spettatori. Una di queste è La Ballata dei Lenna.
E’ con questa compagnia, che a febbraio ha festeggiato i suoi primi cinque anni di vita, che iniziamo oggi un percorso sui giovani gruppi per cercare di capire cosa vogliono dal teatro, partendo dalle rispettive poetiche e dalle difficoltà che incontrano sul loro cammino.
La Ballata dei Lenna è un collettivo formato da Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno che nasce nel 2012 all’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine, dove i tre attori si sono diplomati. Ma la loro ‘base’ è in Piemonte, in provincia di Alessandria.
Si sono fatti conoscere finora con quattro lavori: “Il Paradiso degli idioti”, finalista al Premio Scenario 2015, “REALITalY”, selezione al Festival Castel dei Mondi 2014, “Cantare all’amore” (2013), il loro spettacolo più famoso, vincitore di alcuni premi, e – in questo percorso a ritroso – “La protesta. Una fiaba italiana” (2012).
Attivissimi fin dal principio, nel 2014 la compagnia ha anche organizzato un festival a Bari, a seguito della vittoria del bando Principi Attivi – Giovani idee per una Puglia migliore, mentre per due anni consecutivi (2012-2013), vincendo il bando Giovani di Alessandria, hanno realizzato il primo festival teatrale urbano in vetrina e il progetto “La vita è scema”, in collaborazione con la Comunità di San Benedetto al Porto di Don Gallo.
Quest’anno sono tra i vincitori del bando Funder35, promosso da 18 fondazioni bancarie, e del bando Hangar Creatività sostenuto dalla Regione Piemonte.
Qual è la vostra poetica?
A cosa serve il teatro oggi? Suonerà banale ma è sempre la prima domanda che ci poniamo prima di cominciare a lavorare a nuove produzioni. E nel dire oggi, intendiamo un oggi che cambia giorno dopo giorno, un oggi che continuamente va riscritto ripensato e che si trasforma più veloce di quanto possiamo immaginare.
Restituire il teatro allo spettatore di oggi è il fondamento della nostra poetica. Anche questo potrebbe suonare banale, ma bisogna considerare che lo spettatore di oggi, a differenza di quello di ieri, è di per sé uno spettatore creatore, uno spettatore che ha a disposizione strumenti cognitivi e tecnologici per riscriversi da solo la realtà, per modificarla e agire su di essa.
Lo spettatore di oggi è lui stesso creatore di violente astrazioni. Concettualizza la realtà per comprenderla, la lottizza, la pubblicizza o semplicemente la descrive e, parallelamente, tutta questa astrattezza è reale. Allora chiedersi che posto ha il teatro oggi, nella vita di uno spettatore creatore, non è poi una domanda così banale.
Come può il teatro resistere e farsi spazio, in un mondo abituato a produrre e osservare più immagini in HD che immagini dal vero?
Noi, creatori di professione, siamo testimoni di qualcosa di nuovo: quello che chiamiamo progresso sta correndo più veloce della nostra fantasia, mandando in crisi l’immaginazione, la fantascienza, la possibilità di riscrivere e reinterpretare la realtà.
Nella prospettiva dell’arte questa è una tragedia, oppure un gran colpo di fortuna: dipende dai punti di vista. Per quanto ci riguarda, ci sentiamo arrivati ad una specie di estremo capolinea che ci obbliga a prendere delle posizioni e a tentare soluzioni. E la possibilità di incidere su qualcosa è più stimolante del pensiero di intrattenere qualcuno.
In che senso la vostra poetica è forgiata dal pubblico?
La presenza di un pubblico e l’incidenza di esso sui nostri lavori è fondamentale fin dalla primissima ideazione. Dalla scelta della tematica, allo studio e la ricerca sul campo, dalla messa in scena alla restituzione finale. Il modello che utilizziamo è quello della ricerca partecipativa: non solo approfondire determinate conoscenze teoriche, ma metterle in pratica attraverso il confronto esperienziale con il pubblico. Di solito cominciamo col guardarci attorno, cercando di incontrare e intervistare più persone possibili, di diverse estrazioni sociali; poi dal materiale raccolto si va a operare un processo di analisi e riscrittura che dà vita al copione da mettere in scena. I personaggi sono costruiti in base ai caratteri incontrati nella fase di studio e attorialmente operano in maniera fortemente mimetica, innescando forti relazioni di riconoscibilità nel pubblico. Si passa quindi da un lavoro di reportage ad un lavoro di riscrittura del reale. La non fiction si fa fiction.
Per far questo vi avvalete di diverse professionalità.
Sì, un ruolo assolutamente centrale è giocato dall’affiancamento di professionisti operanti in campi differenti (sociologi, antropologi, documentaristi, fotografi, architetti…) che nei nostri lavori è diventata una prerogativa fondamentale per andare a sviluppare, approfondire e arricchire le tematiche di volta in volta affrontate.
Il nostro intento è di porci in una condizione di continuo studio e ricezione del contemporaneo, non stigmatizzando le nuove tecnologie, ma cercando una strada di dialogo e commistione di linguaggi che possano condurre anche ad un cambiamento di codici drammaturgici e spaziali, con l’obiettivo di portare a teatro un pubblico nuovo.
La fusione compiuta tra visionario e reale, tra immagine e parola è ciò che più ci prefiggiamo di raggiungere, con il fine di restare a fianco dello spettatore, offrendogli sia l’opportunità di entrare in intimità con un’altra mente e con certi caratteri in un modo che nel mondo reale non è concesso, sia una concreta possibilità di identificazione.
L’intuizione è quella di riconoscere alla visione artistica fine a sé stessa una lauta liquidazione per il gran lavoro svolto finora, e trovare un punto di dialogo con il contemporaneo, mischiandoci in un mondo che, a quanto pare, ha molte sorprese in serbo per noi.
Avete dei maestri di riferimento?
Sempre più sovente capita di doverci confrontare con questo tipo di domanda. E sempre più sovente ci sentiamo stimolati non a enumerare i punti di riferimento (che ciascuno di noi coltiva scrupolosamente), piuttosto a cercare di comprendere cosa voglia dire, nel teatro odierno, incarnare il ruolo di maestro, in un momento così delicato in cui anche il confine fantomatico tra maestro e discepolo viene messo in discussione.
Perché secondo voi viene messo in discussione?
Perché oggi questo confine, quando non è eretto a muro invalicabile, finisce per essere abbattuto rovinosamente da quei tanto agognati bandi e premi nazionali che talvolta stipano tutti, adulti e bambini, sulla stessa scialuppa, talaltra creano distanze generazionali controverse, che invece di gettare salvagenti ai giovani, pare regalino punteggi ai vecchi.
E allora, in questo panorama così confuso, in cui la comunicazione è inibita dall’essere oggi considerati tutti ‘coetanei’ senza distinzione ma in celata competizione, domani dall’aggrapparsi alla speranza di rientrare ancora nelle fasce di età “protette”, è chiaro che si rischia di agire in solitudine sin dall’inizio, quando idealmente sarebbe il maestro a dover insegnarti come si fa a camminare da solo.
Ma i maestri non esistono se non ci sono i discepoli, ed è proprio un senso di continuità che forse manca alla nostra generazione. E’ chiaro, il mondo è cambiato, e quasi nessuno era pronto. E’ come se fossimo passati tutti attraverso un giudizio universale e avessimo un po’ fatto finta di niente. Ed è parecchio ormai che i lividi si fanno sentire, ma adesso tocca a noi. E c’è una fretta inarrestabile di fondo nel volerlo dimostrare, che qualche volta impedisce anche di intravedere il faro buono, quello da cui senti di poter derivare.
Eppure non vogliamo sentirci orfani.
Non è di questo che parla il vostro ultimo spettacolo “Il Paradiso degli idioti”?
Lo spettacolo, che ha debuttato lo scorso aprile al Teatro Kismet di Bari, si concentra proprio sulla tematica dell’eredità dei padri.
Con padre noi intendiamo sì il modello genitoriale, dal quale traiamo insegnamento e confronto, ma anche padre in senso più allargato, come generazione che ci ha generati, come eredità politica, culturale, sociale e umana della quale siamo gli eredi.
Lo spettacolo è una nostra personale riflessione su di un tempo che pare stenti a cedere il passo al nuovo. Ma anche il tentativo di mettere assieme i chiaroscuri di una generazione, quella dei trentenni, che molto spesso appare inerme, e della quale si dice che porti avanti le proprie ragioni con armi troppo spuntate e poco incisive.
In scena ci sono Andrea e Sonia, fratello e sorella costretti a rincontrarsi dopo la morte del padre.
Il mondo consegnato a questi due protagonisti è un mondo di plastica, gonfiato di conservanti e nutrito di false illusioni. Il loro è l’incontro di due sguardi diversi sul mondo, di due ideali di creazione contrari, di spaccature prospettiche opposte, ma entrambi celano a sé stessi e all’altro la mancanza di un padre, e l’inadeguatezza a diventare loro stessi padri e creatori dei propri mondi.
Siamo rimasti così, relegati in un’azione/non azione dove la precarietà, la non stabilizzazione, finisce per convenire, si finisce per scappare, restare, allontanarsi, poi ritornare senza essere mai troppo chiari sulle scelte intraprese.
La vostra non è la generazione che urla morte ai padri.
Non lo siamo perché continuiamo a non volerci sentire orfani. E anche perché ci è difficile individuare bene a cosa opporci. Per questo noi crediamo che il bisogno di maestri oggi sia più forte di quanto probabilmente siamo in grado di manifestare; ma siamo anche convinti che il maestro è colui che si pone nella condizione di poter essere considerato tale, che si pone in una predisposizione di trasmissione incondizionato di sapere ed esperienza. Chi è disposto, chi ha il tempo, oggi, davvero, di fondersi totalmente in questa lenta missione ancestrale?
In questa frettolosa epoca di bei consigli e forti smarrimenti, di ingiustificati poteri e fasulle democrazie, forse dovremmo cominciare a sentirci autorizzati a riconoscere in alcune personalità (che non per forza rientrano in canoni di grandiosità) delle nuove guide capaci di passarci in corsa, come in una staffetta, le basi fondamentali su cui strutturare il tanto sperato talento, dove la vittoria consiste semplicemente nell’avere imparato qualcosa in più del mestiere.
— fine prima parte —