La bambola di carne: il cinema espanso di Letizia Renzini e Marina Giovannini

La bambola di carne
La bambola di carne
La bambola di carne (photo: fabbricaeuropa.ffeac.org)

Confrontandosi con un gioiello del cinema espressionista come “Die Puppe” di Ernst Lubitsch (1919), Letizia Renzini e Marina Giovannini creano uno spettacolo che è una riuscita esperienza di “cinema espanso” (come Gene Youngblood qualificò, nel 1970, la percezione delle opere multimediali che diventano “esperienza visiva totale”). Nella loro “Bambola di Carne” l’opera filmica si espande, si dilata integrandosi alla presenza viva del corpo in scena, al mixing sonoro live di Renzini, alle animazioni video e alle ombre bidimensionali delle performer che passano dentro e fuori lo schermo. Ne scaturisce una visione sinestetica che fa perno sulla narrazione di Lubitsch per ampliarne analogicamente l’orizzonte tematico, in un flusso visivo-musicale di compiuta omogeneità.

Il bianco e nero del film, proiettato sui tre schermi che compongono il fondale, apre lo spettacolo delineando la vicenda del misogino baronetto Lancelot, costretto al matrimonio per assicurare la successione dinastica. Solo dopo diversi minuti, quando lo scorrere della pellicola ha introdotto lo spettatore a una visione propriamente cinematografica, Renzini arriva in scena al mixer entrando all’interno della proiezione, insieme ai primi effetti di video compositing e distorsione sonora: la sua silhouette resta visibile, al centro il film continua restringendosi a occhiello, mentre un chiarore rossastro e le maglie di una ragnatela si diffondono sui pannelli laterali. Arti umani, poi un’intera ombra abnorme sullo schermo sinistro: è il corpo della Giovannini compresso su di sé come un ragno che, spostandosi dalla luce, diventa gigantesco o improvvisamente piccolo, fino a riconquistare le proporzioni naturali.
La tela si intesse metaforicamente attorno a Lancelot, che vuol spacciare per moglie una bambola meccanica, ma sposa a sua insaputa la giovane Ossi, modello in carne e ossa della copia artificiale. L’occhio di Lubitsch declina nel film il tema del doppio, che dal romanticismo di Hoffmann e Offenbach arriva alle bambole inquietanti di Bellmer, con sfumature ironiche e aperte allusioni psicanalitiche: la protagonista gode della propria messinscena, gioca con il corpo rappresentato per conquistare momenti di spregiudicatezza fisica.

Verità e finzione oscillano oltre la storia, perché la vertigine performativa cresce inglobando doppi scenici e virtuali: Renzini come ombra musicale della bambola di carne che danza in scena, la stessa Giovannini in video che prova salti e cadute da pupazzo travestita da Ossi, le figurine giocose disegnate da Paolo Fiumi che scorrono nell’animazione di Gregory Petitqueux. In questa composizione multimediale le coreografie agite anticipano o riecheggiano le immagini proiettate, creando osmotici slittamenti. Alla deformazione delle proporzioni anatomiche sullo schermo corrisponde la scomposizione corporea di Giovannini, capace di far emergere dettagli fisici, particolari astratti dall’immobilità – le scapole che salgono solitarie dalla schiena a terra, gli arti disarticolati in piedi come il braccio rotto della bambola nell’inquadratura – ma anche di lavorare sulla fluidità degli impulsi contrapposti, nella rotazione che dal suolo si sviluppa verso l’alto a spirale e avvolge l’aria fino a protendersi all’estremità del cambré.

Il momento in cui la danzatrice espone sezioni del proprio corpo – un avambraccio, una gamba – dietro a un rettangolo di plexiglass rosso, diventa sia metafora esplicita dello sdoppiamento reale/artificiale sia dichiarazione di poetica, dello studio qui condotto sul movimento. Non a caso la scena si svolge in silenzio, unica pausa nel flusso composto da Renzini mixando proprie composizioni elettroniche (dal field recording al bird listening) con brani di AGF, Thomas Brinkmann, più vocalizzi in video di Sabina Meyer: un sistema di suggestioni ritmiche, di echi e riflessi musicali che “Georgia Rose” cantata da Esther Philipps fa scivolare nella dolcezza luminosa di gelatine fluo. A questo punto l’immersione sinestetica è totale, la dilatazione visiva e sonora ha raggiunto massima espansione e intensità percettiva, per cui la narrazione filmica riprende poco a poco il proprio ruolo catalizzatore. Renzini passa simbolicamente dietro lo schermo spazzando, e le due performer scompaiono sotto il mixer portato al centro: ma anche quando riappaiono in diretta video sugli schermi laterali, o tornano le riprese della Giovannini vestita da Ossi, il film assorbe e convoglia su di sé gli altri segni. Ci gustiamo la straordinaria attrice Ossi Oswalda trionfante sulla misoginia di Lancelot, fino all’ultima apparizione delle bambole di carne che, vestite come la Puppe di Lubitsch, abbandonano specularmente la scena.

LA BAMBOLA DI CARNE
dal film Die Puppe di Ernst Lubitsch b/n, 1919
produzione: La Biennale di Venezia, progetto ENPARTS – Teatro Fondamenta Nuove, Fondazione Fabbrica Europa – CAB008
regia: Letizia Renzini
coreografia: Marina Giovannini
video, live mix: Letizia Renzini
con: Marina Giovannini, Letizia Renzini
voce in video: Sabina Meyer
scene e disegni: Paolo Fiumi
costumi: Giulia Pecorari
video compositing e animazione: Raffaele Cafarelli, Gregory Petitqueux
tecnica: Claudio Cantini, Federico Del Lungo, Saverio Damiani
disegno luci: Pieter Jurriaanse, Moritz Zavan
durata: 55’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Scandicci (FI), Teatro Studio, l’8 maggio 2010
Fabbrica Europa 2010

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