E’ assai raro poter assistere nei teatri d’opera del nostro Paese a composizioni nate agli albori del melodramma, se si eccettuano quelle di Claudio Monteverdi e Georg Friedrich Händel.
Siamo quindi molto grati al Teatro alla Scala di averci permesso di assistere dal vivo a “La Calisto”. L’opera, definita “dramma per musica”, composta in un prologo e tre atti, è stata scritta dal compositore cremasco Francesco Cavalli su libretto di Giovanni Faustini, tratto da quel crogiolo di affascinanti suggestioni che sono le “Metamorfosi” di Ovidio.
Fu rappresentata la prima volta il 28 novembre 1651 al Teatro Sant’Apollinare di Venezia. Le cronache di allora ci dicono che, alla sua realizzazione, contribuirono diverse macchine di scena presenti in teatro e atte a realizzare i numerosi effetti speciali presenti nella composizione. Si ricorda anche che durante le undici rappresentazioni il pubblico fu molto scarso. Del resto, 370 anni dopo, non è che la situazione sia molto cambiata, anche se per fortuna il teatro milanese ha concesso a molti giovani di assistervi.
La vicenda ci trasporta in un mondo pieno di incantesimi, popolato da dei e ninfe, ma che, come ben abbiamo studiato, spesso si comportavano pressappoco come noi. Per cui, durante lo svolgersi dell’opera, ci troveremo davanti ad un continuo accavallarsi di schermaglie amorose, in cui sono soprattutto i pochi esseri umani presenti a provare veri sentimenti e non smanie erotiche fini a sé stesse.
La smania che all’inizio muove tutto il racconto è quella del re degli dei Giove che, invaghitosi della scontrosa ninfa Calisto per corteggiarla deve, suo malgrado, consigliato dal fido Mercurio, tramutarsi in Diana, riuscendoci pienamente (“A baciarsi andiam sì sì… sien del dì liete al core tutte l’ore”). Intanto la vera Diana, guidata dalle sue ninfe cacciatrici, ricambia invece i sentimenti del giovane Endimione (qua rappresentato più come astronomo che non come semplice pastore come spesso è ricordato), anche se la sua proverbiale castità le impone di fuggire le delizie dell’amore.
Il travestimento di Giove in Diana scatena ovviamente una serie di divertenti fraintendimenti, che oggi farebbero impallidire i nostri tradizionalisti. Calisto infatti le si avvicina ricordandole i momenti di amore goduti insieme poco prima. Diana, che nulla sa del travestimento di Giove, sdegnata, allontana la ninfa, lasciandola piangente.
Di Diana però è innamorato anche Pan, che si strugge perché il suo amore non è ricambiato e teme di avere un rivale, per questo la fa spiare dai suoi satiri. La vera Diana intanto ritrova addormentato il suo Endimione: al suo risveglio, la dea non resiste e gli confessa il suo amore (“e il mio divin restasse incatenato al suo diletto… Viso eterno, ti bacio, e godo e sento nel baciarti, oh mia Dea, dolce il tormento”, che è uno dei momenti più belli dell’opera).
Il loro incontro è tuttavia spiato da uno dei satiri di Pan, che corre a riportare tutto al suo padrone. Della partita è anche Linfea, una delle seguaci di Diana, vera anticipatrice della Berta rossiniana del Barbiere di Siviglia, che smania per essere amata, faticando non poco (“D’aver un consorte”). Intanto arriva anche la furente Giunone (“De miei pomposi augelli io piombo al volo”) che scende alla ricerca del marito fedifrago e, abituata com’è alle trasformazioni di Giove, intuisce dalle parole di Calisto cosa sia in realtà accaduto. Le tresche e i fraintendimenti quindi si intrecciano tra di loro finché Pan cattura il povero pastore/astronomo, minacciando Diana di vendicarsi sul suo amante.
Calisto arriva alla fonte del Ladone, in attesa della finta Diana, ma invece arriva Giunone con un seguito di Furie, che tramutano la ragazza in orsa. Giove, per ricompensare gli affanni della povera ninfa, le promette che, una volta morta, verrà premiata in cielo, a dispetto della rabbia della moglie gelosa (“Mio foco fatale…” ).
Nel frattempo, la vera Diana arriva e salva Endimione dalle grinfie di Pan, scacciando il dio dei boschi con il suo seguito: allo scornato Pan e al suo sodale Silvano non resta che vendicarsi, rendendo pubblica la lussuria di Diana.
Diana, che non può consumare il suo amore per Endimione, lo fa addormentare per sempre sulla cima del monte Latmos, dopo averlo solo baciato (“Il bacio il bacio basta ad amator onesto”).
L’opera si conclude nell’Empireo, con la trasformazione di Calisto in una costellazione, l’Orsa Maggiore.
La “Calisto” vive soprattutto per i bellissimi recitativi, a cui la declamazione intonata dona ogni volta una espressività diversa; si aggiungono le brevi arie e gli appassionati ariosi, spesso presenti nelle scene d’amore come quelle tra Giove trasformato in Diana e Calisto, e tra Diana ed Endimione.
Abbiamo già accennato come gli esseri umani Calisto ed Endimione siano gli unici sinceri nei loro sentimenti, ma Cavalli è capace di inserire anche in altri personaggi – come Giunone e Diana – un dolore sincero nei loro sentimenti oltraggiati.
Un’opera siffatta, certo di non facile ascolto, per essere gustata appieno deve essere rappresentata adeguatamente e David McVicar, che già avevamo conosciuto per la sua bellissima regia de “Les Troyens” di Berlioz, sempre alla Scala, ci riesce benissimo e in modo fantasmagorico.
Il regista scozzese ambienta la vicenda in un seicentesco osservatorio astronomico, corredato da un’imponente libreria in cui troneggia un grande telescopio rotante, che rimanda a Galileo Galilei che scoprì, agli inizi del ‘600, proprio Calisto, uno dei satelliti naturali del pianeta Giove.
In questo ambiente sono racchiuse le vicende dell’opera, esemplificate anche per mezzo dei video di Rob Vale, che ci trasportano verso cieli stellati, boschi e specchi d’acqua.
Il tutto è racchiuso da un simposio di scienziati, riccamente vestiti alla Rembrandt, mentre Giove, come si confà ad un’opera barocca, scende dal cielo su un vero carro, stupefacente macchina scenica con tanto di aquile e nuvole. I personaggi hanno poi la possibilità di rincorrersi su una passerella che collega il palcoscenico alla platea attorno alla buca dell’orchestra. Piacevoli e caratteristiche sono infatti le dispute tra le ninfe cacciatrici e i satiri erotomani di Pan. Parte dell’incanto visivo di questo allestimento lo si deve anche agli spettacolari costumi di Doey Lüthi.
Difficile giudicare il comparto vocale, dove ci pare che il solo controtenore francese Christophe Dumaux, nella parte di Endimione, interpreti davvero nello stile seicentesco e in modo appassionato il ruolo assegnatogli.
Ci sono comunque piaciuti il soprano israeliano Chen Reiss, che con sensibilità interpreta le varie sfaccettature della protagonista, e Olga Bezsmertna come Diana, che ha forse la parte più difficile, essendo altera e battagliera quando deve esprimere in sé la presenza di Giove e appassionatamente amorevole quando si sente attratta da Endimione.
Il mezzosoprano Chiara Amarù è una Linfea simpaticamente scorbutica. Ricordiamo tra gli altri anche la Giunone di Véronique Gens e il Giove di Luca Titotto.
Nel dirigere l’Orchestra del Teatro alla Scala con strumenti storici, integrata con l’ensemble Les Talens Lyriques, abbiamo davvero molto apprezzato Christophe Rousset, fondatore del gruppo musicale francese, che è riuscito a regalarci in modo così sfaccettato un’opera tanto difficile e rara da ascoltare nella sua stupefacente pienezza.
LA CALISTO
di Francesco Cavalli
Christophe Rousset, direttore
David McVicar, regia
Charles Edwards, scene
Doey Lüthi, costumi
Adam Silverman, luci
Jo Meredith, coreografia
Rob Vale, video
Chen Reiss, Calisto
Olga Bezsmertna, Diana
Luca Tittoto, Giove
Véronique Gens, Giunone
Christophe Dumaux, Endimione
Luigi De Donato, Silvano
Markus Werba, Mercurio
Chiara Amarù, Linfea
Federica Guida, Furia/Eternità
Svetlina Stoyanova, Furia/Destino
John Tessier, Pane/Natura
Damiana Mizzi, Satirino
Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici
Les Talens Lyriques
Nuova produzione
Visto a Milano, Teatro alla Scala, il 10 novembre 2021