In scena al Théâtre du Rond-Point di Parigi fino al 22 gennaio. Dietro al classico triangolo amoroso, la critica sociale e politica del drammaturgo inglese
Il ritrovato incontro tra il drammaturgo britannico Martin Crimp e il regista francese Sylvain Maurice (che nel 2011 aveva già messo in scena “Dealing with Clair”), per la stagione 22/23 del Théâtre du Rond-Point di Parigi diretto da Jean-Michel Ribes, è la deflagrazione di due visioni del mondo e dell’umano minimaliste, che ha luogo nel tempio – consacrato al “teatro di prosa” – della borghesia parigina éclairé, illuminata e socialista.
La cattiva coscienza borghese è rappresentata dalla crudeltà di Crimp attraverso una drammaturgia imperniata su una “situazione di linguaggio” (celebre formula di Roland Barthes) che, però, insegue l’eredità di Harold Pinter. Crimp ricostruisce la dialettica fra tre personaggi canonici – lui, lei, l’altra – che sceglie di far implodere sotto il peso della struttura circolare delle battute e dei due tempi, speculari, della pièce. Maurice, dal canto suo, ammanta di tenerezza disperata la macchina dialettica che il drammaturgo costruisce sul vuoto di tre solitudini condivise, arrivando così ad accarezzare con le unghie il cuore del pubblico del Rond-Point.
In una casa di campagna, Richard (Yannick Choirat) e Corinne (Isabelle Carré) sfuggono il rispettivo passato portando con sé i loro figli e il loro dolore. Il dramma nasce nel momento in cui Richard, medico di quarant’anni, porta a casa la sua giovanissima amante, Rebecca (Manon Clavel). Un’incidente evitato all’ultimo momento è la giustificazione che Richard trova per spiegare questa presenza improvvisa e notturna alla compagna. Ma schermarsi dietro il giuramento di Ippocrate non serve a nulla di fronte all’intelligenza della moglie, che riconosce in fretta questa presenza come l’irruzione inaspettata del passato della coppia, fatto di tradimenti e della tossicodipendenza del marito.
Lo scontro tra Corinne e Rebecca, che avviene poco dopo l’inizio del dramma e che riempie tutto il primo quadro dell’opera, è inevitabile perché è l’incontro senza requie tra due donne che amano la debolezza dello stesso uomo. In questa dialettica, la maestria di Maurice è nel saper tessere il filo e la trama di questo vuoto condiviso, restituendo sulla scena tutta la leggerezza e la sottigliezza insopportabile del testo che la traduzione francese fa intuire.
Un tavolo al centro del palco, disposto in orizzontale rispetto alla sala, è il dispositivo sul quale e attorno a cui gli attori sperimentano i loro ruoli fino all’esaurimento circolare del materiale drammatico.
La musica, discreta e lontana, accompagna la recitazione intima degli attori, ne accentua la tenerezza facendo da controcanto alla crudeltà del dialogo. Le luci accompagnano il gioco di sponda orchestrato da Maurice tra la durezza del testo e la sensibilità dei suoi attori, simulando la luce diegetica della sala da pranzo, oppure illuminando il fondo della scena con colori tenui, tra l’azzurro e il verde chiaro.
Corinne fugge di casa dopo l’incontro con Rebecca perché la consapevolezza dell’attualità del passato di Richard è lacerante, mentre Richard si confronta con questo passato mostrandoci il desiderio perverso che lo unisce alla giovane amante. In realtà, la fragilità e la debolezza di quest’uomo è tutta racchiusa nel suo cinismo borghese, così nel suo giudizio sprezzante verso gli altri riconosciamo tutta la mediocrità dei suoi errori, delle sue finzioni.
Il secondo quadro si apre due mesi dopo gli eventi del primo, di cui ritroviamo tutta la materia dialogica – tutte le battute, gli scambi e i non detti tra marito e moglie – ma come rimescolata. Crimp gioca sulla ripetizione di una situazione diversa ma composta dagli stessi elementi di linguaggio; così, immediatamente, percepiamo che la situazione nella quale sono rinchiusi Richard e Corinne ha subìto un’evoluzione solo apparente. Se la presenza in scena di Rebecca sparisce, il monologo di Corinne dimostra che il dolore del passato è intatto, pietrificato in un presente che non riesce a passare. È qui, allora, che il minimalismo registico di Maurice e la sua fiducia nell’intelligenza degli attori danno i frutti migliori.
Con una riduzione della mastodontica “Penthésilée” di Kleist nel 2021, ed un anno prima con un adattamento delle “Short stories” di Raymond Carver, l’ex direttore del CDN-Théâtre de Sartrouville aveva dato prova della sua capacità di dirigere con mano ferma gli attori lasciandoli liberi di sperimentare sul tema dato dai testi. Poi, attraverso la musica dal vivo, il suo lavoro era consistito nell’assemblare queste partizioni attoriali con le parole dei testi attraverso il dialogo scenico con i musicisti, sempre presenti sul palco.
Con “La Campagne”, invece, la musica non si materializza più sulla scena, senza tuttavia perdere la forza di collante scenico che dà senso alla totalità dell’opera. La bravura e l’intensità struggente degli attori, ma mai fuori dalle righe, acquista così una forza piuttosto irresistibile, benché sottile. Ci si domanda, tuttavia, quanto e come la desolazione ed il vuoto dei personaggi possa scalfire davvero i cuori del pubblico. Se Crimp sviscera un’intimità devastata per mostrare la mediocrità di un intero universo, la delicatezza di Maurice addolcisce forse troppo il gioco della crudeltà concepito dal drammaturgo.
D’altro canto, bisogna ammettere che l’interesse verso questo spettacolo è racchiuso proprio nella dicotomia tra l’asprezza di Crimp e l’amore per i personaggi di Maurice. In effetti, se il finale si chiude col bellissimo monologo di Corinne, che fa toccare il fondo del suo dolore al pubblico grazie alla precisione della recitazione d’Isabelle Carré, la forza del personaggio fa eco al dolore della sua “rivale”, Rebecca. Manon Clavel, interprete dell’amante, dell’“altra”, riesce a dare profondità ad un personaggio complesso, che facilmente avrebbe potuto diventare banale, caricaturale. Invece ci restituisce il dolore di Rebecca mostrandoci anche, dietro la sua forza, l’immensa fragilità di questa giovane donna, senza sbavature o autocompiacimento.
Così, ascoltando le parole disperate di Corinne di fronte ad un dolore che non passa, e che, come un gelido macigno, la costringe in una situazione senza uscita, Richard sparisce pur rimanendo in scena, e alla mente ci torna Rebecca: dov’è, dopo due mesi dal confronto con Corinne, lei, “l’altra”? La bravura di Yannick Choirat è proprio nel saper essere eternamente presente, centro e motore del meccanismo, lasciando però che il suo personaggio sparisca davanti al dolore che le due donne vivono per causa sua.
Ma fino a che punto questo gioco equilibrato ed armonioso fra testo e sua incarnazione scenica può davvero colpire il cuore del pubblico del Rond-Point, fargli capire che le giustificazioni di Richard sono le giustificazioni flebili di un intero mondo sociale che si sorregge e si rafforza solo grazie alle proprie illusioni?
La Campagne
Testo di: Martin Crimp
Traduzione francese: Philippe Djian
Regia: Sylvain Maurice
Con: Isabelle Carré, Yannick Choirat, Manon Clavel
Assistente alla regia: Béatrice Vincent
Collaborazione artistica: Julia Lenze
Scenografia: Sylvain Maurice, in collaborazione con : Margot Clavières
Luci: Rodolphe Martin
Costumi: Olga Karpinsky, assistente: Lucie Guillemet
Suono: Jean De Almeida
Regia generale: André Neri
durata: 1h 20′
Visto a Parigi, Théâtre du Rond-Point, il 6 dicembre 2023