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La casa di Bernarda Alba di Lidi, sul precipizio di un sipario calato

La casa di Bernarda Alba (photo: Luigi De Palma)

La casa di Bernarda Alba (photo: Luigi De Palma)

“Si me voy, te quiero más, / Si me quedo, igual te quiero. / Tu corazón es mi casa / y mi corazón tu huerto. / Yo tengo cuatro palomas, / cuatro palomitas tengo. / Mi corazón es tu casa / ¡y tu corazón mi huerto!”
(Federico García Lorca, A Margarita [Xirgu])

Interviene istintivamente una forte componente autobiografica ogniqualvolta ci si renda conto – specie in tempi così sospesi come quelli che stiamo attraversando – di essere stati testimoni, più o meno consapevoli, di un fenomeno tanto fugace quanto straordinario, fuori dal comune.
Un onore e un onere, dunque, quello di dover raccontare (o quantomeno provare a farlo) il mistero nascosto fra le maglie di un’opera d’arte, che – per sua fortunosa bellezza – va necessariamente assomigliata a un’oasi nel deserto o forse, meglio, a un lampo di luce fra pause di buio, a un bagliore così intenso da forare la retina. È quel pattern nascosto – e si chiude così il metaforico diallele – che emerge squarciando “the cotton wool of daily life”.

In effetti, a pervadere la scena ne “La Casa di Bernarda Alba” diretta da Leonardo Lidi è proprio un prepotente lucore albino (habitación blanquisíma si legge nella didascalia iniziale del testo), compresso entro un reticolato di plexiglass piombati, che fungono al tempo stesso da schermi, specchi e asfittico feretro: all’interno di questo abbacinante perimetro, disegnato per l’occasione da Nicolas Bovey, si rincorrono alcune anime ibseniane, unicorni abnormi e decolorati di uno “zoo di vetro” che ha il retrogusto inquietante del “bagno manicomiale” (come l’ha definito Marcello Fois nel quaderno di sala).

Lo spettacolo, già in programma per la stagione 2019/2020 del Teatro Stabile di Torino (che lo produce), ha finito con l’inaugurare, nell’elegante cornice del Teatro Carignano, il cartellone successivo (sottraendo così la palma all’egualmente sciagurato “Uno sguardo dal ponte” di Valerio Binasco, soppresso causa positività al Covid di un componente del cast).
Sospese, a titolo precauzionale, le repliche ad appena tre giorni dal debutto, la “Casa” ha finito col veder abbattere su di sé la scure franceschiniana.
Ecco allora spiegata la ragione di tanta concitazione nell’introdurre questa nostra visione: che tale preambolo possa valere da assunzione di responsabilità, in quanto privilegiati testimoni di un evento rapidamente arso, e da escusatio non petita.

La vicenda è nota: rimasta vedova per la seconda volta, la sessantenne Bernarda (una splendida Francesca Mazza) impone alle figlie – Angustia (di primo letto), Martirio, Maddalena, Amelia e Adele – un lutto rigoroso, quasi eterno, in uno spazio-tempo iperuranico e a prima vista immobile in cui trova posto anche la Serva/rivale, che è poi amica, compagna di sbronze e spalla tragica, la luminosa Orietta Notari. D’altronde, come viene ossessivamente ribadito, “todo es una terrible repetición”. Motore tragico non sembra tuttavia essere né la cornice ambientale (stereotipata e bigotta), né tantomeno la disgrazia privata (una storia fatta di abusi e trapassi), bensì piuttosto la serpeggiante presenza/assenza di Pepe il Romano, una Clizia in completo nero e passamontagna cui presta il proprio corpo Riccardo Micheletti, plumbeo cerino dechirichesco che, pur essendo quel “qualcuno che tace”, è artefice massimo del dissesto, all’interno del già fragile equilibrio della casa. Gli spensierati “brividi d’amor” cedono così irrimediabilmente il passo, a suon di twist, a una danse macabre il cui inevitabile esito è un’annunciata morte, questa volta per impiccagione.

Pur senza volerne imitare le fattezze, questa “Casa di Bernarda Alba” si intride di vita: la sua supposta tragicità si tramuta in un grottesco ben più adatto al momento presente, naturalmente inteso come frizione tra fine e grosso, tra alto e popolare, tra loica citazione e realistica partitura.
La ricerca di Leonardo Lidi appare tanto più stimolante per lo spettatore (colto, educato, attento, “latelliano”) quanto più crea connessioni di lunga durata e di ampia portata, geografica e cronologica. L’indagine delle epiche bellezze e delle inquietanti aberrazioni del microcosmo familiare ha radici antiche nell’esperienza di palcoscenico dell’attore e regista piacentino, classe 1988: pensiamo all’Amleto di Malosti (e in particolare a una scena brutale con l’allora Ofelia, Roberta Lanave); pensiamo alla “Santa Estasi” o perfino, risalendo indietro negli anni (e nei ricordi), allo spettacolo per ragazzi “Peter Pan”.
Questa esplorazione, che attraversa la trilogia ginzburghiana, gli “Spettri” norvegesi e lo “Zoo” di Tennessee Williams, apparirebbe tuttavia sterile, e in fondo poco interessante, se si trattasse semplicemente di un monomaniacale “scribacchiare” quotidiano sul proprio privato diario, quale misura d’igiene personale. La ricerca, invece, sembra – con ogni probabilità – proiettarsi su ben altri lidi (il gioco di parole era d’obbligo), lungo cioè il crinale tra arte e mondo: interrogarsi, in altri termini, sulla tenuta del linguaggio teatrale quale mezzo di diagnosi, strumento di conoscenza, e mai di cura o aborrevole terapia. Questa, almeno, la percezione.

Nel disegno registico, sapientemente tracciato, si muovono artiste di grande levatura, a cominciare dalle colonne portanti, le già citate Francesca Mazza/Bernarda e Orietta Notari/Serva. Quanto alla prima, non le starà scomoda l’etichetta di “poesia che si fa umana”, coniata da Anna Caixach in un suo denso saggio su Margarita Xirgu (edito in Actoris Studium #2, a cura di Antonio Attisani). Dell’arte dell’attrice catalana – amica-musa di Lorca e peraltro prima Bernarda sul palco del Teatro Avenida di Buenos Aires, l’8 marzo 1945 – non si conservano che sparuti frammenti, contenuti nella pellicola “Bodas de sangre” (tratta dall’omonima opera lorchiana), diretta da Edmundo Guibourg in Argentina nel 1938 e ancora oggi visibile su YouTube.
Le vibrazioni che Mazza emana, il suo processo compositivo, grazie anche al duetto con la solidissima Notari, rievocano, in maniera del tutto preterintenzionale (o forse soltanto per deragliamento di chi scrive), quelle sonorità, quei colori ispanofoni di Xirgu. Attrici che non possiamo più vedere, essendo troppo presto trascorsa la loro ora in palcoscenico. Bisognerà perciò fidarsi della parola di chi le ha viste, perché il teatro – in fondo – è anche questo: memoria, mitologia, martirologio. Diceva Leo de Berardinis che perfino la divina Duse (legata peraltro a filo doppio da Caixach a Xirgu) gli sarebbe apparsa meno eccelsa, vecchia, sorpassata, se non avesse disposto delle testimonianze, delle emozioni, di chi la vide recitare (è la stessa Mazza a rivelarlo in una video-intervista del 2017).

Quanto alle altre protagoniste, sono giovani dai nomi parlanti e funesti, in preda a un divertimento sadico che viene ora esibito frontalmente ora decostruito, spogliato, sovvertito poco alla volta.
L’attonita malinconia di Francesca Bracchino/Angustia, sempre in posizione defilata rispetto al clan (al quale appartiene solo formalmente), è sferzata dall’acido contrappeso fornito dalle battute di Barbara Mattavelli, una Maddalena tutt’altro che penitente. Il sodalizio sororale Paola Giannini/Martirio – Giuliana Bianca Vigogna/Adele, apparentemente più coeso, non è invece meno rabbioso, come dimostrerà lo sviluppo della vicenda. E in questo caso, il gioco di equilibri è anche fisico, estetico: l’una più alta e accomodante, l’altra più bassa e risoluta. Ideale punto di raccordo è l’eccentrica Matilde Vigna/Amelia che, tra guizzi à la segretaria Silvana e svenimenti improvvisi, funge da instabile baricentro del gineceo.
Unica nota cromatica in questo accecante affresco in bianco e nero (cui contribuiscono non poco le vesti di Aurora Damanti, tra il castigato e il succinto), il verde speranza delle calze di Adele, preludio alla metamorfosi finale della ragazza, che riappare in scena post-mortem come Fiordipisello.

Nessun volo di palomitas al termine dello spettacolo; solo il maleficio di una farfalla, cara estinta, che lontano se ne va.
L’epilogo, inducendoci al silenzio, riesce comunque a offrire un senso di liberazione, o meglio di libertà.
Questa, all’incirca, la forma assunta dalla “Casa di Bernarda Alba”, sul precipizio di un sipario un giorno calato, un giorno levato, il giorno seguente chissà.

LA CASA DI BERNARDA ALBA
di Federico García Lorca
traduzione e adattamento Leonardo Lidi
regia Leonardo Lidi
con Francesca Mazza, Orietta Notari, Francesca Bracchino, Paola Giannini, Barbara Mattavelli, Matilde Vigna, Giuliana Bianca Vigogna, Riccardo Micheletti
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Dario Felli
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 4’ 13’’

Visto a Torino, Teatro Carignano, il 21 ottobre 2020

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