Anche se il programma di sala aveva già dato il suo avvertimento, all’annuncio della durata dello spettacolo (tre ore e 45 minuti intervalli compresi), l’inquietudine, persino lo sgomento punteggiano e corrono nella sala del Teatro Argentina di Roma.
È una replica pomeridiana: dalle alzate di sopracciglia fino a «È sequestro di persona!» di una signora bionda di mezz’età – ma non proprio a mezza voce –, le reazioni sono varie, tra chi la prende a ridacchiare e controlla quante caramelle ha in borsa e chi si stringe nella poltrona a significare la propria disapprovazione.
Lungi dall’essere solo colore locale romano, queste reazioni scomposte chiamano in causa due ordini di considerazioni: primo, ci chiedono di riflettere su cosa sia accettabile oggi come tempo dedicato alla sospensione dell’utile, alla cultura, a un’attività non di sciolto intrattenimento.
Secondo, ci porgono ulteriori due domande di carattere tecnico. E’ effettivamente necessaria una “durata” oggi percepita come distesa, allo scopo del lavoro che si sta mettendo in scena, al suo contenuto poetico, politico, a quello che in modo assai ingenuo possiamo definire il suo “messaggio”?
E inoltre: con quali strumenti il regista può far sì che il tempo scorra felice (ammesso che proprio la fatica di quella durata non sia tematica al lavoro che va in scena)? Come si fa, banalmente, a far “reggere” uno spettacolo dalla mole sensibile?
Il caso di studio è “La commedia della vanità” per la regia di Claudio Longhi, seconda delle tre opere teatrali del premio Nobel Elias Canetti, in scena a Roma dopo Modena (ha debuttato allo Storchi), Cesena, Milano, e che dopo di noi vedranno alla Pergola di Firenze dal 19 al 23 febbraio.
Il testo del 1933 immagina un’ipotetica realtà singolarmente iconoclasta, in cui gli specchi e le immagini degli esseri umani sono banditi in nome della morigeratezza nei confronti dell’io. Da qui si ripercorre, attraverso l’intervento di diversi personaggi tratti dai più vari strati sociali e culturali, le conseguenze nefaste di un tale divieto.
Si tratta di un tema che teneva conto della contemporanea ascesa nazista (gli specchi e le foto sono bruciate in un rogo), e tentava di restituire la follia collettiva di una comunità che si riconosce ciecamente in diktat categorici, per poi cadere vittima delle proprie scelte, una volta smaltito l’entusiasmo iniziale e provatene a freddo le conseguenze. E così, gli abitanti del Paese senza immagini si arrabattano per tornare a gettarsi anche solo un veloce sguardo in una scheggia di specchio, organizzano mercati neri, mascherano da sanatori veri e propri bordelli specchianti per l’autoaffermazione della propria immagine, con tanto di applausi registrati.
Ora, tornando alla prima domanda tecnica, cioè se sia necessaria la particolareggiata e meticolosa caricaturizzazione di innumerevoli tipi umani alla trasmissione della parabola di Canetti, la risposta sembrerebbe: no. O, se pure lo è alla lettura, non lo è alla rappresentazione.
La grande metafora del potere e della violenza, con tutti i più meschini aguzzini a far da corteggio, della privazione e della disubbidienza, dell’identità del singolo e dell’ottusa convenzionalità della massa emerge chiara, al di là delle numerosissime storie trascinate sul palco da Longhi. Il quale, con estrema (troppa?) delicatezza opera, sì, tagli, ma minuziosi, chirurgici, tesi a mantenere vivo il maggior numero di personaggi, anche a costo di districarne le voci all’interno di singole scene, lasciando qua e là scorciata l’architettura, ma quelle voci libere di proliferare, di gettare infiorescenze.
Arriviamo così alla seconda delle due questioni, se cioè siano state messe in campo tutte le accortezze perché la molteplicità e la lunghezza del testo “reggano” in scena.
Il lavoro si presenta, fin dalle prime battute del banditore (Fausto Russo Alesi, del tutto a suo agio nella parte, come del resto l’intero cast), profondamente segnato dal punto di vista dello stile, orientato verso un filologico espressionismo. Le battute sono dunque frammentate in molteplici impulsi sonori, corrispondenti quasi a ogni singola sillaba del testo, e rischiano di condannare i dialoghi all’uniformità. Né la coloritura yiddish fornita dagli intermezzi e accompagnamenti di Sándor Radics al cimbalom e di Renata Lacko al violino riesce a essere qualcosa di più di una patina che, per quanto musicalmente e persino drammaturgicamente riuscita, ha l’unico effetto di caratterizzare in modo più netto e, al limite, scontato, il dettato dello spettacolo. E così pure l’uso del trucco sul volto, l’uso della platea e dei palchetti (sempre di passaggio, di scorciatoia, comodo) non giova allo scopo di mantenere l’interesse né, in particolare, a smuovere uno spettacolo che, nonostante tutto, rimane palco-centrico, frontale.
Ultima breve nota, ulteriore segnale che potrebbe denunciare una sottovalutazione della gestione dell’intero arco del testo: perché a Russo Alesi è assegnata, oltra a quella esterna del banditore, anche la parte dell’imballatore Barloch? Che in un testo ricco di almeno 29 parti vi siano dei doppi ruoli è quasi scontato, ma perché “inquinare” l’unico ruolo extra, mescidarne l’esclusività dell’interprete? Sarà lo stesso Canetti a occuparsene, facendolo scendere, nella terza parte, nell’inferno dei personaggi “reali”, come portinaio del sanatorio. Che senso ha anticiparne il movimento?
Eppure, detto tutto ciò – ed ecco una delle magie di cui solo la qualità della penna dello scrittore e la perizia tecnica, innegabile, dell’intero gruppo di lavoro tecnico-artistico sanno rendere conto – questa “Commedia delle vanità” riesce a smentire i timori della platea: in scena ci sa stare.
Se è imperfetto il controllo del lavoro nel suo ampio svolgersi, il testo di Canetti è messo in scena da Longhi come una prova muscolare di virtuosismo tecnico, di gestione di un intricato accavallarsi di voci, di eventi, scena per scena. È uno scontro frontale con un testo arduo, nel quale – se la guerra è persa – sono vinte tutte le singole battaglie.
Non risulterà necessaria, né come operazione né come testo (nonostante i generosi tentativi per absurdum delle note di sala), ma alla signora bionda di mezz’età non si riesce a dar pienamente ragione.
Pur senza essere attratto, teso, convinto, lo spettatore rimarrà quasi sospeso in quel lungo e lineare presente delle tre ore, in una curiosità senza impegno, senza brama, sopportabile; prenderà sollievo nel balsamo della bella fattura dei costumi, nella corretta regia dei movimenti nelle scene e dalla opportunità degli attori tutti; sarà trattenuto insomma sulle poltrone sino alla fine, sino al buio di un dopocena improvviso, a onta della ghiotta opportunità di defezione fornita dalla doppia cadenza degli intervalli.
La commedia della vanità
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
violino Renata Lacko
cimbalom Sándor Radics
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
drammaturgo assistente Matteo Salimbeni
assistente alla regia Elia Dal Maso
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
preparazione al canto Cristina Renzetti
trucco e acconciature Nicole Tomaini
regia Claudio Longhi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
nell’ambito del progetto “Elias Canetti. Il secolo preso alla gola”
foto di scena Serena Pea
durata: 3h 45’ (con intervalli)
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Teatro Argentina, il 6 febbraio 2020