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La conferenza degli assenti. Rimini Protokoll tra platea, palco e vita

Photo: Sebastian Hoppe

Photo: Sebastian Hoppe

I.
È iperrealistico il contesto nel quale ha luogo per Romaeuropa la prima italiana di “La Conferenza degli assenti”, ultimo atteso lavoro dell’ormai quasi ventenne gruppo dei Rimini Protokoll, già Leone d’argento nel 2011.
La scena, delimitata da due tavoli tecnici con microfonisti/attrezzisti ai lati del palco, è arredata da elementi «presi in prestito»: un divanetto, una libreria, una poltrona, un tavolino, un paio di piante e uno scranno da conferenziere. Qui si danno il cambio nove spettatori, reclamati piuttosto inflessibilmente dalla voce registrata di Lisa Lippi Pagliai, che dovranno impersonare gli assenti: i conferenzieri non potranno infatti presenziare, chi per «impossibilità fisica», chi per una scelta ecologista di riduzione delle emissioni di CO2 – curiosa excusatio, che parrebbe pretestuosa nell’anno d’oro delle videoconferenze, se non si rivelasse subito come l’estemporaneo viatico per un dispositivo.

Numerosi sono gli escamotage tecnici messi in campo dal gruppo guidato da Helgard Haug, Stefan Kaegi, Daniel Wetzel per accompagnare gli impreparati a supplire a tale assenza.
Lo spettatore nel ruolo di un operatore minerario russo della Sachá legge i cartoncini da conferenza presenti in una misteriosa busta chiusa; quelli nei panni di un soldato della Wermacht in realtà ebreo e di Sascha Tafelski, medico specializzato nella terapia del “dolore fantasma”, ascoltano in cuffia la voce guida della regia live e agiscono, si muovono secondo le indicazioni, ripetono le parole delle battute sussurrate in cuffia; infine altre buste, di colore rosso, precedentemente consegnate al pubblico, vengono aperte – contengono delle domande da porre all’alter-ego di Stefan Kirsch, avvocato impegnato nella difesa di criminali internazionali; completa il quadro la contemporanea ripetizione di battute in cuffia e l’esposizione di cartelli che con quelle parole fanno il paio o confliggono.

I singoli espedienti utilizzati, molti dei quali hanno già fatto il loro debutto su un palco (per restare in Italia, il lavoro di Fanny & Alexander sul remote acting e quello di Sotterraneo sull’interattività), non sembrano contenere in sé grandi elementi di novità, nemmeno in relazione al tema comune agli interventi.
Si parla di assenza: c’è quella di un arto amputato che continua a dolere, quella di un sé impossibilitato a comunicare dopo un colpo apoplettico, l’assenza fisica del proprio corpo in orbita lontano dalla Terra, o l’assenza definitiva del genere umano, auspicata da Les Knight, fondatore del Movimento per l’estinzione umana volontaria. Come si vede lo spettro è ampio e il tema è affrontato più per collisione di scorci diversi che per affondo.
Nell’intero dispositivo drammaturgico, che è l’insieme di quegli ingranaggi singoli, sembrerebbe sia da ricercare il senso dell’operazione. E qual è allora il contenuto del dispositivo? E a quale prodotto il dispositivo lavora? Evidentemente, prodotto e contenuto consistono nella contaminazione e rispecchiamento tra spettatore, macchina scenica e storie vere rappresentate: platea, palco e vita.

II
Se c’è un termine che incarna questa coesistenza, esso è il verbo “rappresentare”, più volte ribadito durante il lavoro nella sua oscillazione semantica: dal senso classico proprio del medium teatrale («il testo narrativo racconta, quello drammatico rappresenta», insegnavano alle matricole dei corsi di Storia del teatro), a quello forense, l’avvocato che porta avanti una causa per conto terzi. C’è poi quello, che in un certo senso ibrida i due precedenti, di impersonare o incorporare qualcuno, che sia esso esistente o meno, sostituendone la presenza.
Tutta questa dinamica tra realtà interna e realtà esterna, nel loro rimandarsi, sostituirsi, rappresentarsi, richiede però agli ideatori di compiere, a loro volta, un movimento specifico: quello di retrocedere, di scomparire. Si tratta di una dinamica che ha bisogno, per le proprie evoluzioni, di un campo libero e quanto più possibile sminato da velleità demiurgiche, poiché non si tratta né di semplice ostensione di storie (nemmeno in senso epico), né di quell’affascinante distillato che è il reenactment, già contenente in sé l’idea di una ripetizione – dunque di un metteur en scène.
Il rappresentare gli assenti da parte del pubblico (specifico e casuale) di ogni serata pretende un contatto diretto: la mano di chi lo compie dev’essere trasparente – e chissà se nell’illusione di lasciar parlare palco, platea e vita tra loro non ci sia la speranza di recuperare, nel fondo di questa fiducia, un qualche umanesimo: «Avete trasformato una playlist in uno spettacolo» dice la voce-guida rivolgendosi al pubblico nel finale, quasi che siano gli spettatori ad avere la forza di soffiare l’alito vitale su un mero meccanismo.
I Rimini Protokoll provano a rispondere a questa richiesta di trasparenza utilizzando per la mediazione la tecnica: la voce registrata «ferma ma cordiale», quella in cuffia, le battute scritte, i video, i microfoni e tutto ciò che abbiamo chiamato gli “espedienti”.
L’immaterialità, la trasparenza degli espedienti è però solo illusoria: oltre a occupare spazio, occupano soprattutto tempo, catalizzano attenzione su di sé.

III
La conseguenza è che «lo spettacolo» (la scelta terminologica, come si è visto, è degli stessi autori) mostra non solo punti di lentezza e farraginosità, ma soprattutto passaggi in cui ciò che dovrebbe essere di supporto (il posizionamento delle cuffie, l’igienizzazione di mani e microfoni, la selezione di una fra varie buste disponibili) avanza prepotentemente al centro della scena. Gli stessi attrezzisti/microfonisti non possono che rivelarsi, a un certo punto, i veri protagonisti della “conferenza”, dello «spettacolo». Il punto debole, dunque, risiede paradossalmente in quel complesso di cose che si chiama “teatro”, che orienta l’attenzione, carica all’estremo dei dati di pura circostanza, esalta i corpi presenti, eccita la noia e l’attesa.
E infatti quella sorta di sostituzione del mediatore con la tecnica aveva funzionato perfettamente, ad esempio, in “Nachlass – Pièces sans personnes” dove il sito era una capsula costruita ad hoc per la performance: gli spettatori non erano a teatro, non erano inseriti in un contesto di «spettacolo».
Non è solo questione di statuto, né di “convenienze ed inconvenienze teatrali”, di ritmo, è questione di habitat fisico e percettivo. Al punto che l’ingresso della vita in scena, il rovello della sostituzione e della rappresentazione è ben più bruciante in una qualsiasi delle smaccate rievocazioni di Milo Rau (o nel processo di “Congo Tribunal”) che in questo articolato meccanismo scenico-drammaturgico. Se il motore di senso dell’operazione non è portato dal dispositivo ma è il dispositivo, in “La conferenza degli assenti”, esso monopolizza la scena con il proprio meccanismo in una maniera alla quale il contesto reagisce recalcitrante.
Alla fine, insomma, è come se non sia stato il pubblico ad aver «trasformato una playlist in uno spettacolo», sono i Rimini Protokoll ad aver provato, coraggiosamente ma senza successo, a fare di una playlist uno spettacolo.

La Conferenza degli Assenti
Ideazione / testo / Regia: Helgard Haug, Stefan Kaegi, Daniel Wetzel
Scena / Video e design luci: Marc Jungreithmeier
Sound design: Daniel Dorsch
Ricerca / Drammaturgia: Imanuel Schipper, Lüder Pit Wilcke
Con la voce di: Lisa Lippi Pagliai
e le voci in ear di: Daniele Natali e Evelina Rosselli
Cooperazione per l’educazione politico-culturale: Dr. Werner Friedrichs
Direzione di produzione: Epona Hamdan
Assistenza alla drammaturgia: Sebastian Klauke
Assistenza alla regia: Lisa Homburger e Maximilian Pellert
Assistente di scena: Maksim Chernykh
Assistente alla produzione: Federico Schwindt
Una produzione Rimini Apparat
In co-produzione con Staatsschauspiel Dresden, Ruhrfestspiele Recklinghausen, HAU Hebbel am Ufer (Berlin) and Goethe-Institut

durata: 2h

Visto a Roma, Mattatoio / Teatro 1, il 4 novembre 2021

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