La differenza è una risorsa. Il teatro di Akropolis

Imre Thormann
Imre Thormann

Diretta da Clemente Tafuri e David Beronio, la compagnia Akropolis di Genova nella sua ricerca sull’origine dell’atto teatrale ha condotto un percorso sugli sviluppi performativi del coro tragico proponendo incontri, laboratori e gruppi di studio creando una sorta di teatro filosofico, unico nel suo genere in Italia.

La sede che hanno dal 2010 e che utilizzano anche per il festival Testimonianze ricerca azioni (la cui settima edizione prosegue fino al 5 maggio) è un luogo concepito per sperimentare e condividere nuove riflessioni sul teatro contemporaneo, un evento che raccoglie artisti e intellettuali a livello internazionale in un ciclo di spettacoli, conferenze, seminari, residenze, workshop.

Tutte le iniziative performative del gruppo sono accompagnate da volumetti che ogni anno raccolgono gli interventi non solo di Teatro Akropolis ma di tutti coloro che, a diverso titolo, hanno contribuito all’approfondimento dei temi e delle istanze che guidano il lavoro della compagnia.

Un’idea precisa di come l’ensemble genovese pensa debba essere il teatro è lo spettacolo “Enduring freedom” di Imre Thormann, uno dei più prestigiosi maestri Butoh al mondo, allievo del grande Kazuo Ohno.
Più che di spettacolo si dovrebbe parlare di esperienza, in qualche modo mistica, sia da parte dello spettatore sia da parte del danzatore: entrambi compiono un vero e proprio viaggio di liberazione. Lo abbiamo visto negli occhi di parecchi spettatori e nel corpo nudo di Imre, nella sua ricerca spasmodica di un teatro che va alla ricerca dell’assoluto che è in noi e fuori di noi.
E’ questo tipo di teatro che interessa ad Akropolis, e per approfondirne poetica e modalità di azione abbiamo intervistato Tafuri e Beronio, direttori artistici del gruppo ligure.

Il vostro teatro è un po’ un unicum nel panorama italiano. Quali sono le caratteristiche che sentite più vostre?
Le compagnie teatrali di produzione che gestiscono uno spazio impongono il proprio sigillo su un’organizzazione, una programmazione, un codice di comunicazione. Qual è la particolarità di Teatro Akropolis? Forse quella di avvertire le esigenze che spingono ad agire chi sta perseguendo un progetto artistico. Quelle esigenze che rendono certe esperienze uniche, radicali, e come tali importanti per un confronto e una riflessione intorno a quest’arte.
L’opportunità di gestire un teatro, oltre a garantire uno spazio adeguato per la nostra ricerca e per il lavoro sulle creazioni, offre l’occasione di condividere uno spazio di lavoro con le realtà artistiche che più ci interessano e con i lavori che hanno suscitato la nostra passione. L’idea di poter lavorare insieme ad altri artisti, di condividere con loro pratiche e poetiche, è la premessa “egoistica” dell’apertura che da sempre caratterizza Teatro Akropolis. Il dialogo e il confronto sono essenziali, ma non un dovere assoluto nei confronti di chiunque. Il dialogo e il confronto sono momenti che vanno gestiti con cura e attenzione perché sono premesse costitutive dell’identità. E un teatro senza identità non ha ragione di chiamarsi teatro. È un contenitore di segni confusi, solo in apparenza in dialogo con le cose importanti.

Possiamo definire il vostro un teatro filosofico?
Sì, lo è. Non tanto perché conduce un lavoro su temi filosofici, ma perché il teatro ha la potenzialità di mettere a nudo alcuni temi fondamentali sulla natura dell’uomo e sulla sua posizione nel mondo. Il teatro dovrebbe essere filosofico, diversamente è solo un’arte che rinuncia alla sua vocazione originaria. È letteratura sceneggiata, posto che la letteratura possa essere spogliata a sua volta del suo portato filosofico. La filosofia di cui il teatro è portatore non è quella dello sviluppo dialettico, ma quella arcaica della visione e della rivelazione. Quella della sapienza misterica che è indissolubilmente legata al corpo e all’agire del corpo nel mondo. La nascita del teatro dal coro ditirambico è contemporanea alla nascita del logos nei poemi dei pensatori presocratici, parlano la stessa lingua e si collocano nello stesso orizzonte. Questa intuizione di Nietzsche ha un’enorme portata per immaginare una scena contemporanea e riflettere su di essa. Spesso il destino è inscritto nell’origine, e i temi che sorgono affrontando questa prospettiva si possono riconoscere in quelli che hanno animato una parte significativa della ricerca teatrale, e non solo, degli ultimi decenni. Quella che ha posto questioni a tutt’oggi irrisolte che danno, tra l’altro, un senso a questo lavoro.
Eludere tali questioni affrontando la scena del nostro tempo è quantomeno sospetto. Fingere di occuparsene adottando una prospettiva esclusivamente teatrale, specialistica, è invece decisamente disonesto.

Che rapporto c’è tra gli scritti che producete e gli spettacoli?
Le questioni di cui il teatro ha la possibilità di occuparsi sono molto più ampie di quanto convenzionalmente si può intendere. E gli esiti sulla scena di un percorso di studio e di ricerca sono una parte dell’indagine essenziale, costitutiva di un intero progetto ma non riducibile al solo progetto.
Il rapporto tra chi assiste e chi agisce, il valore e il senso della rappresentazione, i motivi del teatro e molte altre questioni vanno affrontate nei loro aspetti più profondi, individuando le radici dei problemi ed esplorandone gli sviluppi. Invitando artisti e studiosi a parlare e a scrivere delle loro esperienze e scoperte raccogliamo le responsabilità intellettuali e politiche di ognuno, e su tali responsabilità il pubblico farà le sue scelte e trarrà le sue conclusioni.
Crediamo che pubblicare libri sia un atto di civiltà. Le cose complesse non possono essere affidate a strumenti nati per semplificare e mediare. Non tutto deve essere ridotto a qualcosa di immediatamente utile, fruibile da chiunque, semplice. Perché quando accade, certe cose perdono la loro ragion d’essere, o comunque non sono più quello che erano in origine, perdono la loro essenza. Il linguaggio conserva la sua ricchezza se il luogo che lo accoglie ne rispetta la tradizione, ne preserva la complessità. Non è vero che tutto è per tutti. La differenza è una risorsa, e transitare nella differenza alla ricerca di quello che ci rende uomini civili dovrebbe essere uno dei compiti dell’arte e del pensiero. Raccontare questi attraversamenti, i nostri e quelli degli altri, in dei volumi crediamo sia un modo per restituire complessità al teatro, per non ridurre la scena a un’esperienza occasionale, autoreferenziale, misera.

Quali sono le caratteristiche del vostro festival, e in particolare dell’edizione di quest’anno?
Testimonianze ricerca azioni si basa sull’idea della condivisione del lavoro degli artisti. I gruppi sono invitati a rimanere in teatro diversi giorni per aprire i processi che stanno alla base del loro lavoro. Possono farlo con corsi, seminari, workshop, oppure con incontri con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. In questo modo hanno la possibilità di mostrare il percorso che li ha portati allo spettacolo destinato alla scena.
Ma Testimonianze ricerca azioni è anche l’espressione della ricerca di Teatro Akropolis. È auspicabile che ogni teatro e ogni compagnia esprimano la loro visione del mondo quando sono chiamati non solo a creare ma anche a organizzare un festival o una stagione.
È quasi ovvio dire che le programmazioni dovrebbero essere espressione di una riflessione sull’arte e sul presente fatta da chi i teatri li dirige. Ovvio ma magari non così scontato. È un problema che spesso si riflette sull’identità a cui accennavamo. Se a definire una programmazione contribuiscono in maniera significativa i ministeri, gli assessorati, gli interessi economici, la burocrazia più in generale, beh’ significa gestire un teatro come si gestirebbe una qualsiasi azienda.
Ma un teatro non vende prodotti a scadenza. Un teatro dovrebbe essere un presidio di civiltà, come può esserlo un buon libro. Soprattutto oggi. E come tale aperto a tutti quelli che decidono di fare una scelta e non di subirla. Tornando alla tua domanda, quest’anno in particolare, abbiamo provato a mettere una accanto all’altra esperienze che parlano dell’origine. L’origine culturale, l’origine famigliare, l’infanzia come origine personale.

Avete dei maestri?
La nostra formazione non è strettamente teatrale. Essa riguarda la filosofia, la letteratura. I maestri che ci hanno ispirato sono gli eretici di questi ambiti. Sono coloro che hanno intuito come le specializzazioni rischino di ridurre tutto a poca cosa. Coloro che hanno sentito di dover uscire dalla scena, dalla pagina scritta, dalla filosofia stessa per tentare di abbracciare una più ampia e complessa visione del mondo. Essere eretici, in questo senso, significa trasvalutare un dogma, un metodo. Ovvero attraversarlo per tradirlo e ritrovarsi così in un nuovo labirinto. Tradire è l’unico modo per avere con il passato un rapporto proficuo. Per dialogare con la tradizione e non con la convenzione.

Come sono stati i rapporti con le istituzioni producendo un tipo di teatro così particolare?
I rapporti con le istituzioni sono sempre piuttosto complessi. Talvolta alla chiusura delle strutture burocratiche pone rimedio la curiosità e l’intelligenza delle persone. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare alcuni amministratori che hanno condiviso con noi l’orizzonte del nostro progetto e questo ci ha consentito di crescere nella considerazione anche di coloro che inizialmente erano più scettici. Anche se i problemi di un teatro non commerciale sono sempre molto duri da affrontare.

In che modo gestite la vostra struttura?
La vita di Teatro Akropolis è animata dal lavoro di diverse persone che hanno scelto di dedicare le proprie energie allo sviluppo di tutte le attività che stiamo promuovendo.

Quali progetti per il futuro?
Il nostro futuro immediato è legato alla promozione e alla circuitazione dello spettacolo che abbiamo da poco portato alla sua forma definitiva, “Morte di Zarathustra”. Presto, dopo la lunga gestazione del nostro spettacolo sulla tragedia, esploreremo le origini del comico. Ma è prematuro dire dove questa indagine ci porterà.

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