La dodicesima notte di Giovanni Ortoleva. O quello che vogliamo

La dodicesima notte (ph: Luca Del Pia)
La dodicesima notte (ph: Luca Del Pia)

In prima nazionale al Teatro della Tosse, dopo il debutto assoluto al LAC, il nuovo spettacolo del regista fiorentino sarà in tournée nel 2024

È comune pensiero, nell’ambiente di chi fa e studia il teatro, che “La Dodicesima notte”, sebbene annoverata tra le commedie più riuscite di Shakespeare, sia un testo molto complicato, insidioso, un vero banco di prova, tanto che non lo si ritrova molto facilmente nei cartelloni delle stagioni teatrali.

“La dodicesima notte (o quello che volete)” è il testo che Giovanni Ortoleva sceglie per proseguire il lavoro sulla trilogia dell’amore iniziato con “Lancillotto e Ginevra”, in questa nuova produzione del LAC che ha debuttato proprio a Lugano e che arriva in prima nazionale a Genova, al Teatro della Tosse (che co-produce insieme al Teatro Carcano e ad Arca Azzurra), il teatro che ha ospitato e prodotto la quasi totalità dei suoi lavori precedenti (“Saul”, “I rifiuti, la città e la morte”, “La tragica storia del Dottor Faust”), e dove Ortoleva è regista residente fino al 2024.

Ci racconta il regista fiorentino: «“La dodicesima notte” è una commedia-non commedia, una sorta di testo ibrido, in cui i personaggi agiscono in nome di un amore idealizzato, come dei Don Chisciotte – in questo senso penso che Shakespeare anticipi di qualche anno Miguel De Cervantes – e in cui si parla di amore continuamente, in maniera ossessiva».
La materia raccontata è pertanto l’amore nella sua forma distorta, degenerata, malata, piegata alle volontà febbrili e istintuali dei tanti personaggi, intessuta nel disegno di tante micro macro e sotto-tracce a formare un grand tableau complesso e polifono.

L’Illiria shakespeariana in cui è ambientata la commedia si traduce in una scenografia, firmata da Paolo Di Benedetto, ad altissimi gradoni che si sviluppa molto verso l’alto e pochissimo in profondità, occupando lo spazio scenico per quasi tutta l’altezza fino a pochi centimetri dalla graticcia, e dove in alto svetta un imponente bassorilievo raffigurante un trionfo cinquecentesco di deliziosi putti alati che, ingigantiti nelle proporzioni, diventano degli strani inquietanti mostri paffuti, per di più verdi; verdi perché l’intera gradinata è tinta di un verde acceso irregolare, un colore che può ricordare le verdi siepi dei giardini all’italiana, ma soprattutto che richiama il verde fluorescente del virus, la malattia d’amore (e in questo Ortoleva sottolinea la vicinanza linguistica tra “illness” e Illiria) che impregna la scena come una forte nebbia colorata e la inquina della sua tintura materica.

Sugli alti spalti di questa gradinata, posta quasi a filo del proscenio, agiscono i personaggi, disposti simbolicamente più in alto o più in basso a seconda del ceto di appartenenza, (quasi) tutti sempre presenti ad abitare la storia, ognuno con i suoi evidenti caratteri fisici, spasmi, tic, ossessioni.
Gli attori, nove talentuosi attori (tre donne e sei uomini quasi tutti sotto i 30 anni) indossano abiti contemporanei, qualcuno vagamente dimesso ma pur sempre glamour, eleganti e sobri come delle celebrità vestite da cerimonia (o forse da funerale?): abbiamo completi a due pezzi, papillon slacciati, un bustino a stecche, un ombrellino nero di pizzo, una guêpière e una grande pelliccia nera a dare un tocco rock’n roll.

Non solo il reparto costumi, di Margherita Baldoni, ma è il testo stesso ad assumere un carattere estremamente contemporaneo, come ci suggerisce il regista: «La traduzione di Federico Bellini è stata un lavoro fondamentale da cui partire; innanzitutto per capire che ogni personaggio nel testo parla una propria lingua, legata al ceto di provenienza. Poi si è lavorato molto sulla dicibilità del testo stesso, anche con gli attori, per renderlo chiaro. Ho dovuto, per forza di cose, fare dei tagli, ma ho cercato di affilare “dal dentro” piuttosto che tagliare di netto».

Diversamente da quanto succedeva nell’altro suo lavoro corale “I rifiuti, la città e la morte”, in questa produzione la distribuzione delle parti principali segue uno schema uno ad uno, fatta eccezione per il fool, l’idiota Feste, che vediamo più avanti.
Il gioco della distribuzione delle parti individuali, seppur funzionale a un risultato finale che è veramente corale e concertato, permette un lavoro di caratterizzazione “a tondo” dei personaggi, ognuno ben scolpito secondo il proprio animo e innalzato a tipo fisso, maschera, carattere, stereotipo, come si trattasse di una rosa di temperamenti, una vasta palette di colori che include i tanti, diversi, personaggi-tipo (la serva sadica, lo scemo ingannato, l’ubriaco cinico, il duca pigro e scuro, la contessa in lutto focosa, il puritano beffato etc…) a coabitare questa Illiria intossicata; ci sembra di osservare al microscopio la sostanza stessa dell’allestimento: gli attori come singole cellule-batteri di forme diverse si muovono, si cercano, si incontrano per poi respingersi nel verde virus martellante e iugulatorio della scena. Questa sorta di bios specifico include, tuttavia, anche alcune cellule impazzite, estranee alle altre per definizione e natura stessa: Malvolio, Feste e Viola-Sebastiano.

In un piccolo prologo a scena chiusa, Malvolio, interpretato da Michelangelo Dalisi, apre entrando dalla platea, mendicando di essere riconosciuto come “l’uomo più ragionevole di Illiria” e non come folle, per poi scalare nella pièce l’arduo muro del censo sociale, dapprima ridicolizzato nella sua mise di spasimante pazzo (le famose giarrettiere gialle), esibendosi in pose e sorrisi improbabili (qualche risata nel pubblico) lassù in alto, fra i cherubini, per poi essere rigettato in basso, rapito, beffato e ingannato prima di giurare, disilluso e violato, la sua proverbiale vendetta di chiusura.
Questo Malvolio è una creatura diversa dagli altri abitanti di Illiria perché veramente di un’altra natura, fisica e morale; non solo per il physique du rôle (il cinquantenne Dalisi, col glabro volto scavato e il corpo magro e aggraziatamente plastico, stacca di diversi anni l’età media del resto del cast), ma perché Malvolio rappresenta in qualche modo una nota sempre fredda, il puritano per eccellenza, portatore di un gelo siderale, potremmo dire di morte: l’amore che contagia tutto e tutti lo oltrepassa senza accendere in lui nessun moto emotivo bensì solo opportunità di ascensione di rango, e anche le sue tante, continue richieste di aiuto (“Aiutatemi… vi dimostrerò che non sono pazzo… fatemi una domanda… datemi un pezzo di carta”) sono richieste lucide, fredde, rassegnate, mai disperate, mai veramente urlate.

Altra cellula degenerata: il fool Feste, qua tradotto come l’idiota, interpretato da Francesca Osso, è abbigliato da moderno Arlecchino. «Feste il fool è una sorta di autorità filosofica che piega il confine tra la commedia e la fine della commedia. Agisce sul senso del ribaltamento della realtà, la rigira e ce la mostra, disvelandocela, rivoltata dal senso sbagliato», spiega Ortoleva.
Il Feste di Osso qui funge da vero jolly, in senso lato: suo è il gioco delle parti, il “play” nel senso più ampio possibile; sul gioco della traduzione di play e del suo ampio spettro semantico in inglese (recitare, suonare, giocare) è ricamato il suo campo di azione: giocare a fare l’idiota (to play the fool), suonare (il pianoforte), recitare alcune parti fuori dal personaggio (Curio, Valentino, capitano, gli ufficiali e altri) – in pieno stile Ortoleva – , giocare a dare i tempi agli attori, a suggerire al pubblico, bisbigliando, chi è il personaggio che sta per prendere parola.
L’idiota Feste, punto di incontro tra un Arlecchino-servitore, un cantante di pianobar e un terrestre Ariele (da La Tempesta), è allo stesso tempo nucleo generatore e messo celebrante della festa di questo spettacolo, essere distaccato ma anche indissolubilmente immerso nel tempo e soprattutto nel suono dell’azione: sue le note, i pugni sul pianoforte, le canzoni suonate dal vivo. «Con Francesca Osso abbiamo scelto alcune canzoni, tutte fuori dal testo, che lei suona e canta [esiste anche una playlist Spotify con le tracce che vengono suonate o che hanno ispirato il lavoro, nda]. E poi c’è un tema musicale che ritorna, firmato da Franco Visioli – con cui sono stato molto contento di lavorare – che è il tema di Viola e Sebastiano».
Fortissimo il risultato scenico che proviene dalla scelta di far cantare e suonare il piano in scena (viene in mente il pianoforte del “Chi ha paura di Virginia Woolf” di Latella) e molto ben sfruttato l’espediente adottato trasversalmente su tutto lo spettacolo.

Una riflessione su Viola/Sebastiano interpretati da Alessandro Bandini, genovese classe’ 94 già interprete per Ortoleva del “Saul” nel 2019. Per questi ruoli Ortoleva afferma di avere fatto “gender-blind casting” come scelta di poetica necessaria, scelta che tuttavia si porta dietro delle ripercussioni sceniche inevitabili, dal momento che non solo abbiamo Bandini nei panni di Viola e ovviamente nei panni di Viola travestita da Cesario, ma anche nei panni del gemello Sebastiano, e nel finale, in prossimità del disvelamento degli inganni, contestualmente in scena Viola/Cesario e Sebastiano, tutti fusi nel corpo-presenza-parola dello stesso interprete, capogiro e vertigine di questo gioco disvelato delle identità moltiplicate, fiorite e ingenerate sullo stesso corpo-attore.
Un’interpretazione commossa e cristallina, quella di Bandini, che supera con successo la trappola della caduta nel cliché queer in favore di una Viola pura, idealizzante, mossa da un amore chimerico che è quello verso il naufragato e disperso gemello Sebastiano – e non tanto verso l’inquieto e masturbatorio Duca Orsino, come a prima vista suggerirebbe il testo -, una Viola trasognata e piangente (in almeno un paio di occasioni), in eleganti vesti blu cross-gender.
Viola è veramente la straniera in Illiria; il richiamo verso l’amore per lei è di natura trascendentale, romantica, e non fisica né malata come per tutti gli altri, tanto che le sue malcelate dichiarazioni d’amore nei confronti di Orsino diventano manifesti utopici, preghiere al vento, dolci lamenti astratti; infatti, nel momento di vicinanza fisica tra i due, Viola non guarda neanche il suo amato negli occhi, guarda oltre, lo attraversa, lo dematerializza.
L’amore vero è della stessa materia di cui sono fatti i due gemelli, viene da dire giocando con il verso di shakespeariano, e nel finale orgiastico in cui chi ha sfamato le proprie tossiche bramosie è finalmente libero di accoppiarsi (più che di amare), il regista sceglie di mettere in alto, sul frontone degli angioletti, la contessa Olivia e il duca Orsino a consumare, schiacciare, violare di baci e approcci sessuali l’unico corpo fisico di Bandini-Viola/Sebastiano, in un quartetto simbolico che è incarnato in un trittico, un trio che celebra e professa il sopravvento e la vittoria del desiderio dei due nobili d’Illiria sull’unica creatura-preda a due identità Viola/Sebastiano.

Fortissimo e quasi icastico un breve quadro centrale, il momento in cui sembra calare la notte: tutto piano piano si ferma, c’è un cambio di luci, dal basso i raggi freddi e lunari dei led piano piano inondano la scena; cala la notte e sale la luce argentea della luna sull’Illiria, i personaggi si sdraiano in cerca di un breve, ultimo, riposo, a dormire, sognare, nutrire di fantasia i propri desideri, sule note cristalline di Feste che canta “Wild is the wind” di Nina Simone, una serenata incantata non solo all’amore ma anche al claire de lune stesso, un quadro in cui corpi, musica, immagine e immaginario si sposano per unirsi in un commovente e lucido barlume di sogno.

Ph: Luca Del Pia
Ph: Luca Del Pia

Non per ultimo occorre sottolineare il sempre divertente gioco del teatro nel teatro che caratterizza Shakespeare e che Ortoleva non poteva non cogliere e restituire. Da una parte i minuziosi e pregevoli interventi di traduzione («abbiamo cercato di assecondare in questo senso il gioco shakespeariano sul testo») come ad esempio: “questa battuta non è nel testo” oppure “Voi siete usciti dal personaggio”, che sono battute direttamente plasmate sull’originale inglese, riallestite e palesate in favore di un divertissement che sia il più chiaro e leggibile possibile. Ma il momento meta-teatrale per eccellenza è la performance della serva Maria (interpretata dalla giovane e sorprendente Aurora Spreafico) nel momento della lettera di Malvolio: Maria, che ha scritto la lettera, non solo commenta e anticipa il testo, ma decide e detta tempi e risvolti dell’azione stessa, ne annuncia le parti (“prologo!” “epilogo!”, “sipario!”) e la dirige in toto, come ben dimostra la battuta “Basta controscene!”, che non solo è una battuta ma soprattutto una vera indicazione di regia.
Maria, da personaggio che potremmo definire secondario, grazie alla lettura di Ortoleva scala la gerarchia dei ruoli, fino a risultare a volte la protagonista, attraversando tutti i registri e temperamenti fino alla vera e propria trasfigurazione scenica: da composta e spasmodica serva-bambina con le trecce, il trucco colato da pierrot e l’uniforme da Mercoledì Adams, a rabbiosa vendicativa e urlante, si scioglie i lunghi capelli biondi e indossa la pelliccia nera della padrona Olivia, suo contrappunto costante, fino a saziare la sua voglia antalgica di approvazione dell’opportunista ubriacone Sir Tobia (il sempre ottimo Edoardo Sorgente) e i due, nell’amaro (non) lieto fine, consumano finalmente il loro desiderio malato, in realtà consumandosi a vicenda.

Per chiudere, “La dodicesima notte” di Giovanni Ortoleva è un artefatto composto e disteso che rappresenta un microcosmo biologico quasi alieno e che si offre a più letture – in questo senso è veramente “quello che volete” – come una preziosa pietra di opale (l’opale richiamato nel testo e scelto come immagine della locandina): femminile e maschile allo stesso tempo, lattescente e iridescente, pietra colorata e bianca, stratificata ma anche liscia; una riflessione chiara sui linguaggi e le possibilità della viva scena e tuttavia un intricato “gnommero” verde acido, la cui tessitura diventa la trama astratta di sottofondo su cui l’intero spettacolo nasce e muore a ogni replica.

LA DODICESIMA NOTTE (O QUELLO CHE VOLETE)
di William Shakespeare
traduzione: Federico Bellini
adattamento e regia: Giovanni Ortoleva
con (in ordine alfabetico): Giuseppe Aceto, Alessandro Bandini, Michelangelo Dalisi, Giovanni Drago, Anna Manella, Alberto Marcello, Francesca Osso, Edoardo Sorgente, Aurora Spreafico
scene: Paolo Di Benedetto
costumi: Margherita Baldoni
luci: Fabio Bozzetta
progetto sonoro: Franco Visioli
assistente alla regia: Alice Sinigaglia
assistente scenografo: Andrea Colombo
direttore di scena e capo macchinista: Stefano Orsini
capo elettricista e datore luci: Fabio Bozzetta
fonico: Nicola Sannino
sarta realizzatrice e di scena: Margherita Platé
scene realizzate da: Allestimenti Arianese srl
produzione: LAC Lugano Arte e Cultura in coproduzione con Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Centro D’arte Contemporanea Teatro Carcano, Arca Azzurra

durata: 1h 40’
applausi del pubblico: 4’

Visto a Genova, Teatro Della Tosse, il 9 marzo 2023
Prima nazionale

 

 

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1 Comments

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  1. says: Virginia

    Sarebbe buona cosa smettere di celebrare, in buona o cattiva fede, simili brutture che fanno del grande teatro un pretesto per pompare l’ego smisurato di registi dediti all’autocelebrazione. La commedia aveva da insegnare per come è stata scritta e pensata, non aveva alcun bisogno di essere infarcita di messaggi politici e allusioni da attivisti contemporanei. Non c’è nulla di originale né geniale né meritevole di riflessione in questa ennesima trita e ritrita sciocchezza propagandista che offende Shakespeare e insulta il pubblico.

    Veramente non si comprende come si possa poi stupirsi che i teatri si svuotino. O, peggio, che si riempiano di vuoti narcisisti invasati di politica che non vedono null’altro che la propria idea e vanno a teatro per sentirsela ripetere da piccolissimi megafoni asserviti alla propaganda