Ascanio Celestini è uno di quegli attori che puoi facilmente incontrare all’ingresso del teatro o trovarlo chiacchierare in mezzo al pubblico prima dell’inizio dello spettacolo; in effetti più di una volta è capitato di vederlo entrare in scena direttamente dalla sala.
La sua sedia è comunque lì che lo aspetta, basta poco, e tutto è pronto per il viaggio; il conducente prende posto, il biglietto noi ce l’abbiamo e si parte.
Questa volta ci conduce attraverso un percorso nella memoria del manicomio, non sottoforma d’analisi sociologica prima o post legge Basaglia, ma attraverso una storia personale, quella di Nicola.
L’indagine condotta sul campo, lungo le intense esperienze di ex pazienti, medici ed infermieri, rimane celata nel sottotesto, non si avverte, tutto si confonde, si sdoppia, si fonde tra realtà e fantasia, tra salti temporali e momenti d’innocente e comica follia.
Nicola è nato “nei favolosi anni Sessanta”, gli anni de “sapore di mare, sapore di sale”, quelli in cui tutto era possibile. Ma se nascevi nei meravigliosi anni ’60 “dovevi essere favoloso pure te”, e quindi il padre non l’ha mai registrato all’anagrafe e Nicola è rimasto Uno, Nessuno, ma anche un po’ Tutti. E’ questa la natura meravigliosa del racconto, resa ancor più efficace dall’io narrante, quella che ti permette di correre con la memoria personale parallelamente alla storia narrata, e di ritrovare quelle piccole analogie che, avvicinandoti al protagonista, emozionano.
Chi di noi non ha recuperato l’immagine di una vecchia zia, di un nonno o di un amico di famiglia che, con un reiterato modo di dire o di fare, ha segnato la propria infanzia?
La nonna di Nicola è una di queste; prendeva un uovo fresco di gallina, gli faceva il buco con l’unghia del mignolo (che Celestini non dimentica mai di mimare) e se lo beveva esclamando: “…che fresco quest’ovo. C’ha ancora la puzza del culo della gallina”. Oppure il ricordo della suora dell’istituto che, essendo sorda, non sentiva le sue puzze. O chi non ha compiuto, ancora, un “gesto eroico” per conquistare la sua Marinella?
Nicola mangia un ragno e finisce col disinfestare l’intera sagrestia una volta sfumato il sogno d’amore.
Sicuramente molti si saranno imbattuti in un genitore, insegnante o datore di lavoro che per un nonnulla l’hanno fatto sentire “una pecora nera”.
C’è molta umanità e disumanità nel manicomio di Celestini, tutto viene percepito in modo vero e tangibile, come i due refrain della paura e della morte (“Io sono morto quest’anno”, recita il pannello che delimita lo spazio scenico e scandisce i passaggi temporali) sempiterne presenze nelle persone di tutte le età.
Il condominio di Nicola è un manicomio elettrico, dove la “paura del buio” e dei suoi mostri viene curata con l’elettricità, perché con la luce scompare la paura, “perché il buio fa paura e si può morire per la paura del buio”.
L’unico problema è che la paura non è una malattia e non si guarisce, mentre l’elettricità finisce per cancellare tutto, se ne vanno le sensazioni, se ne va il piacere con il dolore e si dimentica anche il colore del mare.
Molto commovente la voce fuori campo, di un vero paziente internato in manicomio, che legge una poesia: “Come è possibile camminare sui prati verdi e avere l’animo triste? Essere immersi nel caldo del sole mentre tutto intorno sorride e avere l’angoscia nel cuore? Lasciate a noi le tristezze. A noi che non possiamo andare nei prati e non vediamo mai il sole”.
Al rientro da questo viaggio, una volta misurate le distanze e recuperate le immagini, che sopra di voi ci sia il sole o un cielo color indaco, se guardate tra voi e Nicola, matto un po’ per caso e un po’ per disavventura, non potrete non chiedervi: com’è possibile?
La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico
di e con Ascanio Celestini
durata: 1 h 28’
applausi del pubblico: 1’ 14’’
Visto a Rovigo, Opera Prima-Teatro Studio, il 4 novembre 2008