“Ci sono questi due tizi in un manicomio, e una notte decidono che sono stanchi di vivere in un manicomio. Decidono che cercheranno di fuggire! Così salgono sul tetto e dall’altra parte vedono i palazzi della città distendersi alla luce della luna… verso la libertà. Il primo salta sul tetto vicino senza alcun problema. Ma il suo amico non osa compiere il balzo. Perché… perché ha paura di cadere. Allora il primo ha un’idea e dice: “Ehi! Ho preso la torcia elettrica con me! Illuminerò lo spazio tra i due edifici. Così mi raggiungerai camminando sul raggio di luce!”. Ma il secondo scuote la testa: “Cosa credi!? Che sia pazzo? Quando sarò a metà strada la spegnerai!”.
Questa barzelletta proviene da “The Killing Joke” di Alan Moore-Brian Bolland, un graphic-novel capolavoro che narra la nascita di Joker e la sua eterna lotta con Batman.
Ogni volta che la rileggo mi attraversa una grande tristezza. Un po’ come quella che mi affiora nel sapere cosa sta succedendo a Roma, in quei luoghi che un tempo erano rifugio per chi si affidava, romantico (o forse alienato-alieno al mondo lì fuori), nelle stanze di un luogo sacro e accogliente come il teatro, se chi lo prende sotto la sua ala protettiva ne ha amorevole cura.
“Ci sembra perfetto, Joker ci fa molto ridere, ma regala anche a noi un’infinita tristezza – ci incalza Industria Indipendente, alias Martina Ruggeri ed Erika Galli – La cultura dovrebbe tenere insieme le redini di una comunità, elevarla, innalzarla, prometterle immortalità, bellezza, restituirle il senso stesso della vita e rendere l’essere umano fedele alla propria storia e alla propria terra. Dal nostro punto di vista i teatri, le politiche culturali e soprattutto l’istruzione hanno fallito, le poltrone sono diventate scomode, i banchi aule informatiche e gli spettatori faticano ad ascoltare, guardare, capire, e questo perché sono stati disabituati a farlo. Stanno, rimangono, non scelgono, aspettano e guardano Benigni come un predicatore americano da quattro soldi pensando sia l’ultimo modo di essere intellettuali e di imparare qualcosa, e questo è un grave problema. Fortunatamente a volte accade il cortocircuito: basta pensare a quello che è successo dopo la messa in scena di Latella del “Natale in casa Cupiello” di De Filippo per capire che invece il pubblico, e quindi i cittadini, hanno bisogno di domandarsi, di sentirsi scomodi, di reagire con qualcosa che sia un amore, un disgusto, un pensiero. Le istituzioni a questo punto dovrebbero investire, dovrebbero pensare di essere a Las Vegas e puntare alto, perché la posta in gioco è alta, anche a rischio di perdere tutto e ricominciare a scommettere”.
E’ questo il pensiero di Industria Indipendente. Ma il riferimento a Latella e alle ipocrisie romane era fortemente presente anche nel discorso di Ricci/Forte, da noi interpellati dopo la strage al Charlie Hebdo.
Da qualche mese con il vecchio Krapp si era fatta una scommessa: cercare di contattare degli artisti romani, dei “teatranti”, gente che mastica e respira cultura, per provocarne la reazione e riflettere sullo stato del teatro a Roma Capitale; vedere quindi chi avrebbe reagito e come. Ci sarei riuscito? Come vedete, nel frattempo sono passati mesi. Di certo non sono il redivivo Franco Quadri, e certi nomi prezzemolino della divulgazione della cultura romana da me contattati hanno fatto quello che forse riesce loro meglio: disinteressarsi dell’argomento, a meno – e non era il mio caso – di non appartenere ad una corte “papalina” ristretta, o a meno di non poter applicare con loro la merce di scambio del “do ut des”.
Ma anche al di fuori di certi riscontri, mi sarei aspettato una reazione diversa da parte di altri artisti, visto che si sta parlando di ciò che dovrebbe essere per loro caro e vitale sopra ogni cosa: lo stato dei luoghi dove si fa cultura, la loro città, se mai l’hanno sentita propria…
Torniamo quindi ai luoghi e ripartiamo dall’Eliseo.
Dal “20 novembre è stato eseguito lo sfratto. Gli spettacoli nelle due sale dell’Eliseo sono stati sospesi”: un annuncio che può leggere chiunque transiti per l’home page del sito del teatro. “Stiamo lavorando assiduamente affinché il Teatro Eliseo riapra il prima possibile”: lo dichiarava il direttore artistico e nuovo gestore della storica sala di via Nazionale, Luca Barbareschi, nell’ormai lontano 22 novembre. Il prima possibile: quando, e in che modo?
“(…) Abbiamo sbattuto contro il muro di gomma delle istituzioni, che si sono trincerate dietro la “questione tra privati” e non hanno alzato un dito per favorire una mediazione che consentisse un passaggio non traumatico, rendendosi complici della chiusura del teatro – lamentava Massimo Monaci, il fu direttore artistico dell’Eliseo, a ridosso dello sfratto – Non abbiamo chiesto soldi, abbiamo chiesto aiuto per una trattativa ragionevole, che non c’è stata mai. Vi chiediamo scusa, e pazienza, ancora per qualche giorno. Noi siamo dalla parte del teatro (…)”.
“Il panorama teatrale di Roma – riflette Industria Indipendente sulla vicenda – sembra essere governato da una sorta di stregoneria, di incantamento medievale, sembrerebbe quasi che sullo scenario capitolino si sia abbattuta la mannaia della magia nera. Questo per farla fantasiosa. Le prospettive sono avvilenti se non nulle. La situazione alla quale abbiamo assistito all’Eliseo ci sembra ridicola, ed è stata grave come mai prima d’ora. Non permettere ad un artista di concludere il suo lavoro è fuori dalla grazia di Dio [il riferimento è allo spettacolo di Emma Dante annullato, ndr]. Era ormai tempo che si gridava allo sfratto dell’Eliseo e non sarebbe stato diverso dalla parabola di altri teatri, ormai costretti nelle dinamiche di “mercato” o imbarbariti da gestioni che poco e nulla hanno a che fare con l’arte e la cultura. I teatri sono diventati aziende: quando si fallisce si chiude, quando non si vende più si sbaracca, quando si continua a programmare bisogna inserire nel cartellone certezze, grandi nomi provenienti da fiction (se tutto va bene) o peggio ancora da reality e programmi televisivi. In un tale momento di crisi culturale ed economica interrompere uno spettacolo con migliaia di biglietti già acquistati è a dir poco vergognoso, un autogol, un atto impuro compiuto da privati, da agenti immobiliari delle poltrone rosse, da fantocci della cultura, un atto ignobile aggravato dal lasciapassare delle istituzioni. Per noi è stato un grande dolore sapere che Emma Dante non poteva continuare le proprie repliche: gli artisti, ora come non mai, avrebbero bisogno di essere difesi, tutelati, sostenuti e non di essere cacciati a calci nel momento in cui regalano cultura ad una città, ad un paese che, diciamolo, ha perfino dimenticato l’impiego del congiuntivo”.
Industria Indipendente si sta dando parecchio da fare in questo periodo: a breve gireranno il loro primo corto per il progetto “Le ragazze del porno”, titolo “Più di ogni altra cosa al mondo vorrei”; sono in semifinale al Premio Scenario con un lavoro sull’Iliade che si chiama “Ho tanti affanni in petto”, e stanno partecipando al Premio Dante Cappelletti con il testo “I ragazzi del cavalcavia”, sul branco che dal cavalcavia della Cavallosa, nel lontano 1996, uccise con un masso Maria Letizia Berdini “per scacciare la noia, non sapendo come trascorrere una serata d’inverno nel periodo natalizio”.
Eppure hanno trovato il tempo di esporci il loro punto di vista. Cosa che invece tanti preferiscono non fare per non esporsi. Anche chi inizialmente si era detto interessato, si è poi trincerato nel silenzio, nel “non ho più fiducia nel dibattito”, “non ho cose valide da dire, speranzose”, “cadrei nel già detto, nel banale”, “sarebbe come sparare sulla Croce Rossa”, “non vogliamo parlare di quello che è successo a Parigi?”. O c’è chi era in tournée e prometteva che avrebbe dato un cenno il prima possibile…
Insomma, si preferisce non prendere posizione, nel timore che una parola sbagliata, poco gradita, possa essere fraintesa da orecchie troppo sensibili, relegando nel libro nero dei “mai esistiti” quei timorati del Dio Potere, manco si fosse il bestemmiatore Leopoldo Mastelloni, allontanato dalla Rai appena trent’anni fa…
Intanto, il Palladium è ormai dell’Università/Ateneo che sta organizzando eventi. AngeloMaiAltrove e Rialtosantambrogio galleggiano gloriosamente nell’aria, mantenendosi in vita in modo autonomo. Dell’attività del Kollatino Underground è comparso il flyer della rassegna dedicata al Nuovo Circo Contemporaneo, che andrà in scena dal 12 al 28 febbraio al Parco Meda: “Anomalie”.
Il Teatro India continua ad essere Cantiere, ma non secondo il titolo del piano programmatico che Antonio Calbi aveva delineato nella conferenza stampa estiva svoltasi all’Argentina: è proprio un cantiere, nel vero senso della parola, come ai bei tempi di Lavia direttore.
Il Teatro Valle (non più)occupato, da quando gli (ex)occupanti hanno dimostrato buona volontà verso le istituzioni facendo le valigie e la proposta di un Teatro Partecipato, è un cadavere dagli occhi spenti. Come poter dare torto ai militanti, che sono di nuovo a protestare?
Questi ultimi, sul blog de Il Fatto Quotidiano, il 12 gennaio avevano scritto: “Teatro Valle: andiamo avanti, la scrittura partecipata della Convenzione! Sono mesi difficili, faticosi. La città sta cambiando, e l’aria che si respira è cattiva. Le esperienze di autogestione e di vitalità culturale vengono soffocate o lasciate morire: il Teatro Valle, l’Angelo Mai, il Cinema America, ora Scup. Intanto Mafia Capitale disvela le carte e mostra le collusioni sistemiche tra politica e criminalità”.
Il 9 gennaio, durante l’incontro all’Assessorato alla Cultura, la Fondazione Valle Bene Comune ha presentato una proposta di convenzione basata sui punti comuni concordati ad agosto con Teatro di Roma e Assessorato.
Ma, come ricordano gli ex occupanti, l’impegno da parte delle istituzioni per l’avvio di una reale sperimentazione gestionale è premessa indispensabile per intraprendere qualsiasi forma di collaborazione. Un impegno che deve concretizzarsi nella firma della convenzione tra Fondazione e Teatro di Roma e nella produzione di una delibera o altri strumenti politico-amministrativi adeguati da parte dell’Assessorato.
La Fondazione ha proposto – su richiesta del Teatro di Roma – un progetto di Teatro Partecipato, agorà e laboratorio permanente dei beni comuni. Il progetto, elaborato nel corso di questi mesi attraverso assemblee pubbliche e articolato su tre anni, nasce in continuità con l’esperienza di sperimentazione del Valle Occupato, basandosi sui suoi principi fondamentali: autonomia e decisionalità diffusa; coinvolgimento attivo della comunità artistica e della cittadinanza; libertà di fruizione degli spazi anche al di fuori degli orari convenzionali; accessibilità economica alle attività; forme di lavoro cooperative e solidali; trasparenza riguardo i lavori di restauro e messa a norma.
“Quello che vogliamo è mettere in pratica una nuova istituzione culturale, non una finestra all’interno di una programmazione già stabilita con i criteri ordinari di un teatro stabile – ribadiscono – Ma non avendo ricevuto alcun riscontro sulla proposta di convenzione presentata, e dopo aver sollecitato più volte un incontro, il 24 gennaio ci è stata consegnata una bozza di convenzione di tipo standard. Bozza che non solo non tiene conto del testo presentato dalla Fondazione, ma non recepisce minimamente neppure i principi concordati ad agosto, dimostrando di non voler realmente avviare questa sperimentazione e di non scommettere su questo progetto. È addirittura scomparsa la dicitura Teatro Partecipato”.
Ecco allora che la Fondazione ha presentato pubblicamente, il 28 gennaio, a città, Teatro di Roma e Assessore alla Cultura un’ulteriore proposta di convenzione e il suo progetto di Teatro Partecipato. In attesa di ricevere qualche risposta.
“Allo stato attuale dei fatti ci sembra che l’occupazione di certi spazi sia doverosa – riprende Industria Indipendente – In questi anni le occupazioni, gli spazi underground hanno dimostrato che c’era un grande buco nero, fatto di (ancora una volta) mancanza d’attenzione nei confronti delle politiche culturali e dei diritti dei lavoratori dello spettacolo. Mutatis mutandis la storia di Mamma Roma Mafia capitale non ci ha stupito affatto, la concussione è un peccato veniale lungo tutta la storia dello stivale. Quello che c’è da fare come sempre è lottare non solo politicamente, ma soprattutto artisticamente, richiamando il pubblico e le istituzioni ai loro diritti nel primo caso, e ai doveri nel secondo. A Roma non si offre spazio alle giovani compagnie e si fa fatica a produrre, darsi delle regole, reagire a un sistema che è stato creato ai limiti della sopravvivenza. Si sgomita, si fa fatica, si leccano culi e si fa buon viso e cattivo gioco. Tutto questo per riuscire ad entrare nelle grazie di quei tre, quattro, cinque che decidono le regole del gioco. I teatri prendono finanziamenti statali per incentivare e mettere in scena la drammaturgia contemporanea, e questa dov’è? Non c’è, o ce n’è troppo poca. E allora vengano le tempeste, i terremoti, gli uragani ed esploda tutto, torneremo a guardare cori ed eroi che ci ricorderanno quanto era politico e sacro il teatro”.
Come scriveva nel “Gattopardo” Giuseppe Tommasi di Lampedusa, “Se vogliamo che tutto resti come è, bisogna che tutto cambi”.
E senza allontanarsi da Roma, la voce di Alberto Sordi riecheggia in “Un borghese piccolo piccolo”: “Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena. D’altronde io e tua madre siamo soddisfatti: abbiamo un figlio ragioniere, che vogliamo di più? Per noi gli altri non esistono…”.
Del resto la cosa importante, da tenere bene in mente quando l’unica soluzione sarà una fuga a circuito chiuso, è che nessuno spenga la torcia mentre si sta camminando su quel raggio di luce!
Ringraziamo allora Industria Indipendente e Ricci/Forte per i loro pensieri, e tutti gli altri per i loro silenzi. Perché, come si legge sul sito dello Stabile di Roma, “Il Teatro è bellezza. Emozionati con noi”.
Gentile Marco Lucchesi, è davvero un piacere sentire la sua voce che informa tutti dell’esperienza viva del TeatroDue: grazie. L’articolo voleva essere di stimolo proprio per questo: parlare di alcune realtà culturali che hanno avuto spazio in questi anni, e che ora vivono in mancanza di ossigeno, in alcuni casi nella sua totale assenza – come fanno tante altre sul territorio romano -, e cercare di capire insieme cosa fare. Le mille voci e i mille volti di Roma, poco e mal conosciuti, meritano tutti di essere rappresentati, ed ascoltati. E per questo qui si invita a farsi sentire, artisti, operatori, tutti, per dire la propria, per dimostrare che ancora si è vivi, si (r)esiste, e si continua a lottare con l’unica arma pacifica e rivoluzionaria che si conosce: l’arte.
Salve Alceste il soggettivo, il suo intervento sembra di qualcuno che si è sentito defraudato in qualche modo: ha per caso interessi in merito, ed è in cerca di capriespiatori?
Il suo ragionamento sembra appunto minato da preconcetti: in una grande città come Roma il pluralismo dovrebbe essere un bene prezioso. Ognuno dovrebbe essere in grado di conquistare la propria dimensione ed identità, e in questo essere posto dalle istituzioni in condizione di farlo, nel modo migliore. La pluralità di una proposta è quella che conta. E Roma, in quanto capitale europea, dovrebbe essere capace di farlo. E dare spazio a questa pluralità.
Lei pensa che quello che proponeva il Teatro Valle Occupato, di nuovo attivo a protestare in modo civile e creativo, e che continua a fare l’Angelo Mai, che prossimamente proporrà una rassegna come Tropici, ha tolto spazio a chi? E come ha rovinato la cultura a Roma? L’appiattimento culturale, la paura di proporre, osare, sperare, nasce molto prima di queste esperienze, e di certo non sono loro la causa, ma rispondono invece a un’esigenza di ricominciare a respirare.
Gentile Giacomo D’Alelio nel panorama culturale/teatrale netto e lapidario che ci fornisce della città di Roma (condivisibile e se possibile “appesantibile”) sfugge il lavoro del nostro teatro che si accinge in questi giorni ad ospitare anche la struttura che ospita il suo scritto. Non per polemica ma per ingenua soddisfazione vedere riconosciuti i propri sforzi, qualche volta, aiuta. Sono certo che le è sfuggito e quindi la invito a visitare il nostro http://www.teatrodueroma.it
Cordialmente
Marco Lucchesi
questo report soffre di parecchi Errori di disinformazione
tentare di accreditare i fuorilegge dell’Angelo Mai o i fascisti occuparoli del Valle significa appoggiare coloro i quali hanno fattivamente distrutto il teatro romano abbassando la media culturale e distruggendo la concorrenza. non valgono niente, non hanno prodotto niente, sono niente.
il teatro Valle è stato distrutto dagli occupanti e l’Eliseo ha subito lo stesso destino pur essendo affidato a privatI più titolati. vederci camminare topi e incompetenti è offensivo per chiunque.
il teatro romano può e deve risorgere SOLO grazie alla legalità e all’esperienza trasmessa a chi di questa passione ha fatto un lavoro vero e proprio.