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La Macelleria Intima di Tac Tac riempie d’anima il Torino Fringe

Boucherie Intime

Boucherie Intime

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui”
[Calvino, Le città invisibili]

Nel suo celebre saggio del 1946 “L’uomo come fine”, Alberto Moravia partiva dall’ambigua massima machiavellica “il fine giustifica i mezzi” per interrogarsi sulla paradossale razionalità della violenza che riduce l’uomo a ingranaggio e servo eterodiretto del Sistema, sia esso lo Stato, la Società, il Mercato o il Capitale: “Ciò infatti che un tempo distingueva l’uomo dagli animali era che solo tra tutti gli animali l’uomo si poneva l’uomo stesso come fine, mentre gli altri animali, incapaci di porsi se stessi come fine, diventavano mezzi all’uomo”. Moravia prospettava tuttavia per l’infelice uomo di questi sclerotizzati Tempi Moderni – dipinti così bene dal cinema muto di Charlie Chaplin – la possibilità di un riscatto derivante da quel residuo che sempre il Potere produce come proprio effetto collaterale, vale a dire il dolore, l’incoercibile sofferenza dell’individuo e la sua insopprimibile facoltà catartica ed emancipatrice.

Ebbene, il protagonista di “Boucherie Intime/Macelleria Intima”, spettacolo del duo italo-marsigliese Tac Tac – che ha debuttato l’11 maggio nel piccolo e accogliente Bazaar nell’ambito del Torino Fringe Festival – è, a suo modo, l’Uomo della Rivolta, un perfetto esemplare di quel gramsciano ottimismo della volontà capace di opporsi con tenacia e creatività al pessimismo dell’intelligenza e ai vincoli mortiferi di una realtà degradata e degradante.
Martin è colui che accetta di abitare il Sistema, riuscendo miracolosamente a scavarvi una propria nicchia ecologica e a decostruirne le basi dall’interno, grazie alle proprie vitali risorse immaginative e a quell’inesauribile potenziale demiurgico della fantasia che è poi il fulcro tematico dello spettacolo.

La storia di Martin rispecchia la tragica parabola di tanti giovani precari e disoccupati dei nostri giorni: costretto dalla necessità di sbarcare il lunario, accetta un impiego presso la catena di montaggio di un mattatoio industriale e rimane intrappolato nella routine alienante e sanguinolenta della macellazione. Dopo una rapida “scalata al successo” come dipendente del mese – vizio cronico del protagonista, che lo porterà anche alla difficile scelta di rinunciare all’amore della sua vita per conservare la stabilità del posto fisso – Martin verrà licenziato, spodestato dal suo modesto regno di bistecche e coltellacci, e dunque inaspettatamente deluso da quel lavoro che aveva finito, suo malgrado, per idolatrare.

La scenografia, di foggia artigianale e sobria, gioca su un allestimento ricercatamente povero, volto a restituire con metaforica essenzialità la sistematica espoliazione di umanità cui sono sottoposti i lavoratori. Un quadrato di asettico nylon bianco circoscrive sul pavimento lo spazio di una surreale arena operatoria, dove uno schermo di plastica taglia verticalmente la scena, consentendo al pubblico di intravedere in semitrasparenza il dietro-le-quinte delle più cruente e maldestre operazioni chirurgiche.
Sagome stilizzate di animali, come esanimi pupazzi, vengono dissezionate ed eviscerate – parallelamente ai sentimenti del protagonista – dietro lo schermo di questo lugubre cinematografo, che attraverso un rarefatto gioco di ombre cinesi riesce a velare la violenza e a sublimarla in poesia.

La morte – interiore ed esteriore – che sembra pervadere la dura vita del mattatoio ne risulta così stemperata e spogliata della sua greve materialità, grazie anche alle frequenti incursioni di nostalgiche canzoni da Vecchia Parigi che riscaldano un’atmosfera progressivamente sempre più onirica.
Complice fondamentale: la voce fuori campo di Margot, impersonata dall’attrice e regista Isabella Locurcio, che si alterna abilmente nel ruolo di narratrice e personaggio. Accendendo e spegnendo manualmente una piccola lampada, quasi raccontasse sottovoce al pubblico una favola della buonanotte, Margot dipana lentamente – simile alla Moira della mitologia greca – il filo della vita di Martin, ricostruendone infanzia, gioie e delusioni, con l’ausilio di un semplice tavolino – che diventa una sorta di myse en abime, di microscopico teatro nel teatro – e di pochi, significativi oggetti simbolici. Un sandalo di bambino e uno stivale riescono così a sintetizzare mirabilmente la complessità del rapporto padre-figlio; un blocco di cemento si trasforma nella grigia fabbrica in cui si consuma, fra un’ecatombe di sgargianti maialini di gomma, la monotona quotidianità del protagonista; mentre un paio di omini Lego duplicano teneramente la labile storia d’amore fra Martin e Margot.

Quello della compagnia Tac Tac si configura programmaticamente come un Théâtre d’objet: sono proprio gli oggetti a costituire lo scheletro drammaturgico dell’opera, evocando e scandendo la partitura dei diversi episodi del racconto. Il sottotitolo di “Macelleria Intima” recita “Spectacle pour deux comédiens et des kilomètres de laine rouge”: la romantica relazione fra Martin e Margot, nata tra camici sporchi di sangue e lanci di frattaglie, si sviluppa – e presto si esaurirà – in un’alcova di carni macinate, una cascata di gomitoli di lana cremisi che invadono a poco a poco la scena, dichiarando quella che è la cifra stilistica dominante dell’intero dramma: la trasfigurazione del reale.

Allo spettatore non resta dunque che sottoscrivere il patto di sospensione dell’incredulità e accettare di lasciarsi coinvolgere, di buon grado, nel delirio allucinatorio e fantasmagorico di Martin che, assediato dalla noia e dalla solitudine, comincia ad umanizzare il tetro paesaggio di carcasse animali che lo circondano, trasformandolo in una carnevalesca festa popolare. Fra invisibili danze e grandiose orchestre, il potere vivificante della sua immaginazione porta letteralmente alla vita un putrescente popolo di brandelli di carne animale che – specialmente nell’esilarante tango a due di Martin con una bistecca – sembra citare alcune scene in stop motion del capolavoro “Lunacy” (2005) del regista ceco Svankmajer, dove alcuni striscianti e irrequieti pezzi di carne animale evadono prometeicamente delle loro confezioni di cellophane, in questo caso metafore della contenzione psichiatrica.
L’incantesimo di esilarante negromanzia compiuto da Martin rimette dunque in discussione non solo l’esiguo confine tra materia animata e inanimata, ma contesta il nostro stesso essere corpi, troppo spesso inerti e disciplinati, lontani da una vita autenticamente libera, autorealizzata e soddisfacente.

Veramente degna di nota è l’interpretazione del giovane Clément Montagnier, in grado di trascolorare con estrema disinvoltura dal registro burlesco a quello tragico-patetico, facendo sempre perno su un’espressività calibrata e contenuta, e giocando su una fisicità scarna, che pare confezionata su misura per il mattatoio in cui è ambientata la storia.
La recitazione di questo pregevole attore, se da una parte sembra affondare le proprie radici nella gestualità marcata e nelle posture tipiche della maschera della Commedia dell’Arte, d’altra sembra invece suggerire chiare filiazioni da un immaginario culturale tutto francese, cinematografico in particolare. La cifra comica, quasi da cartone animato, che caratterizza l’impacciato Martin appartiene infatti a quella stirpe di personaggi buffi, maldestri ed estraniati, al confine fra genio ed inettitudine, che compongono tanta parte dell’immaginario umoristico francese (dal celebre Ispettore Clouseau – alias La Pantera Rosa – al Monsieur Hulot del Jacques Tati di “Playtime” o “Mon Oncle”, film che non a caso indagano proprio le aberrazioni della modernità industriale).

Impossibile infine non notare una lontana parentela fra la vicenda di Martin e quella di Louison, protagonista del grottesco cult “Delicatessen” (1991) del regista Jean-Pierre Jeunet. Qui, un clown disoccupato si ritrova a (soprav)vivere in una cupa e desolata Francia post-apocalittica, ridotta al cannibalismo clandestino, e si innamora perdutamente della figlia di un crudele macellaio di carne umana. La purezza del loro sentimento, non dissimile da quella fra Martin e Margot, trionferà sulla barbarie morale che li circonda. “Macelleria Intima” non solo sembra inquadrarsi nella medesima cornice distopica, ma potrebbe reintitolarsi addirittura “Il favoloso mondo di Martin”, personaggio che per nome di battesimo, goffagine e verginità esistenziale ricorda quell’Amelie Poulain, altro celebre fanciullino pascoliano della filmografia di Jeunet, nonché paradigmatico di una poetica delle piccole cose, delle infime gioie del quotidiano, che pare accomunare la sensibilità di Jeunet e quella dei suoi connazionali Tac Tac.

“Macelleria intima” è insomma un piccolo gioiello arrivato a Torino grazie al Fringe (chi se lo fosse perso ha ancora tempo stasera e domani), capace non solo di sollecitare e solleticare l’universo culturale dello spettatore, ma soprattutto di regalare un’originale variazione sul tema – inflazionato e talvolta abusato – del lavoro, un mondo troppo spesso fatto di perdite, compromessi e ingiustizie. La riflessione dei Tac Tac riesce infatti a non scadere mai nel nichilismo pessimista, ricordandoci al contrario, come insegna anche il Calvino delle “Città Invisibili”, che bisogna sempre sforzarsi di scorgere e apprezzare la bellezza là dove si fa più opaca: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Esistono fiori che si ostinano a crescere nelle crepe del cemento, come la storia d’amore fra Martin e Margot, sbocciata “8874 maiali dopo” il loro primo incontro su un’insanguinata catena di montaggio.

Fra gli altri appuntamenti di questa edizione del Fringe torinese, che prosegue in questi giorni con un nutrito calendario che si concluderà domenica 21 maggio, vogliamo ricordarvi questa sera l’evento speciale di Giorgio Rossi di Sosta Palmizi con “Lasciati amare”, e poi l’arrivo del romano Nano Egidio, con il suo linguaggio pop ironico e divertente, una sorta di gioco contagioso che può parlare anche a chi non è così abituato al teatro; segnaliamo anche l’atteso spettacolo “Alfredino. L’Italia in fondo a un pozzo” di Effetto Morgana, monologo interpretato da Fabio Banfo per la regia di Serena Piazza, che da stasera a domenica ripercorre la tragica vicenda del bambino che, nel 1981, tenne sospesi i cuori di tutti gli italiani.

BOUCHERIE INTIME (MACELLERIA INTIMA)
di Tac Tac
Autore: Clément Montagnier e Isabella Locurcio
Regia: Isabella Locurcio
Interpreti: Clément Montagnier e Isabella Locurcio
Luci: Marie Carrignon
Musiche: Nicola Dinelli
Costumi: Isabella Locurcio
Assistente alla Regia: Laurean Pardoen

durata: 50′
applausi del pubblico: 3′

Visto a Torino, Bazaar, il 12 maggio 2017

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