Una composizione ad arte. Così da farti uscire da teatro con la consapevolezza che il livello di qualità di ciò che hai appena visto è altissimo.
Forma, drammaturgia, recitativo ma anche luci e ombre, statica e dinamica, colore e “messa fuoco”, insomma tutto appare in un perfetto equilibrio compositivo.
Alla Biennale Teatro di Venezia, quest’anno Thomas Ostermeier ha presentato “Die Ehe der Maria Braun” (Il matrimonio di Maria Braun), andando ad attingere al cinema di Rainer Werner Fassbinder e a quel suo modo struggente e spietato di rappresentare tanto chiaramente i meccanismi sociali, dove nessuno si salva dall’autodistruzione e l’amore si perde nell’incomunicabilità e nella solitudine.
E’ stata una vicenda personale – l’interruzione di un amore che non aveva futuro – a condurre il regista alla sceneggiatura di Fassbinder.
“I film liberano la testa” diceva il cineasta tedesco, e forse per questo il direttore dello Schaubühne – nonché Leone d’Oro 2011 – ha scelto di esplorare quello che lui stesso ha definito “il monte Everest nel paesaggio della regia tedesca”.
“Il matrimonio di Maria Braun” è arrivato in scena nella forma attuale dopo un lungo periodo di gestazione, ricerca e revisione; venne infatti prodotto inizialmente nel 2007 per il Münchener Kammerspiele.
Ostermeier ha voluto trasporre nella scatola teatrale il processo di conoscenza attivato dal dolore di quella storia attraverso una riverente fedeltà alla sceneggiatura cinematografica del 1979; facendola però brillare, rendendo vive e vivaci le sequenze e la messinscena attraverso continue metamorfosi, l’utilizzo di piccoli artifici teatrali e riprese live come è nel suo stile. E offrendo, attraverso la storia personale di Maria, uno sguardo disincantato sulla storia della Germania e del suo popolo, ma anche una riflessione sull’amore, sul potere e le complesse dinamiche umane.
Un vero omaggio all’autore, alla sua Maria ma anche a quel sotteso stile teatrale che tanto potenziava i film di Fassbinder.
Ostermeier inverte però il processo. Se il cineasta tendeva a ridurre il campo inquadrando gli attori in una “cornice” (una porta, una finestra) facendoli sembrare i personaggi di una pièce teatrale, il regista, al contrario, allarga qui il campo portando a fondo scena la pellicola di repertorio sui cui scorrono i ricordi della guerra. E lasciando al sonoro d’epoca il ricordo del contesto socio-economico, i drammi e i paradossi della Germania di allora e alla lettura iniziale al microfono delle lettere delle donne innamorate di Hitler, il ricordo dell’isteria dell’amore.
La cornice così è enorme, si intrecciano le chiavi di lettura, lo sguardo dello spettatore si allontana e si allarga, mentre gli attori sembrano i personaggi di un “film” che fa di tutto per sovrastarli.
Il centro della scena è riservato alla figura della donna: Maria – interpretata da una splendida Ursina Landi -, donna intelligente e di spirito, grazie alla sua bellezza ed intraprendenza riuscirà a salire la scala sociale, restando però intrappolata nelle convenzioni sociali ed economiche che governano i meccanismi relazionali di cui fa parte.
La Germania post-bellica, annichilita dalla sconfitta in guerra si presentava allora come un paesaggio lunare, con “tante donne e pochi uomini”. Ben quindici milioni mancarono infatti all’appello nel 1945. In quella società senza padri toccò quindi alla donna rimboccarsi le maniche e provvedere al bisogno primario della sopravvivenza.
Ecco perchè Ostermeier sceglie una sola attrice per interpretare Maria, che non uscirà mai di scena, mentre tutt’attorno gravitano uomini che con rapidità vestono e svestono la finzione della macchina cinematografica.
Thomas Bading, Robert Beyer, Moritz Gottwald e Sebastian Schwarz, con piccoli e velocissimi cambi scena ed esilaranti espedienti comici, entrano ed escono magistralmente da ambientazioni del tutto diverse e da una trentina di ruoli differenti, tra femminili e maschili.
Tutto si svolge senza soluzione di continuità, tanto che ogni passaggio, ogni spostamento, ogni “messa a fuoco” risulta talmente elegante, agile e fluente da sembrare danzata.
Ursina Landi ci regala invece, con Maria, una protagonista potente e fragile. Potente perché la pazienza per il ritorno del marito e quindi dell’amore la rende acuta e determinata nel far valere i suoi desideri in materia di affari. Con estrema eleganza, fino all’ultimo nulla sembra attraversarle la pelle: né l’omicidio che lei stessa compie, né vendere il proprio corpo, e neppure la perdita del figlio che portava in grembo.
Ma allo stesso tempo è fragile perché il suo bisogno d’amore reca in sé qualcosa di tragico e desolante, per quella enigmatica sottile innocenza che la Landi riesce a far respirare, rievocando a tratti un po’ Marilyn Monroe, e contemporaneamente per quella raggiunta indipendenza economica che, più che una ricompensa, per Maria è una dieta per l’anima.
Non c’è tempo per l’amore, non c’è tempo per i sentimenti, “l’amore è più freddo della mente” in quella che sembra essere una sala d’attesa o la hall di un albergo, o ancora il foyer di un cinema anni ’50, con tante poltroncine e tavolini sparsi (le scene sono di Nina Wetzel). I colori, poco contrastati, sono morbidi ma freddi, fangosi ma sofisticati, a ricreare un luogo ricoperto da una patina opaca che esclude ogni possibilità di affondo.
Nel far coincidere unità di montaggio e unità scenica, Ostermeier regala, come lui stesso l’ha definita, una “visione democratica” sull’incompiutezza dell’amore, sulla natura “capitalista” dei rapporti affettivi e relazionali, sull’impossibilità di essere del tutto artefici del proprio destino, e su quella capacità tedesca, ma anche europea, di tirarsi in piedi senza che nulla mai cambi davvero nelle fondamenta.
E’ un momento struggente quello in cui Maria capisce di essere solo una pedina che i suoi due uomini, il marito Herman e il ricco imprenditore Oswald, di cui è braccio destro e amante, hanno lasciato avanzare per ottenere l’uno la ricchezza e l’altro la sua compagnia fino alla morte. Ma sarà troppo tardi.
L’illusione di una felicità coniugale esplode, il sogno deflagra, il fuoco brucia la pellicola alle spalle di Maria ed Herman, e ritorna il buio della fine di ogni speranza, di fronte a cui, per Fassbinder, il suicidio rimaneva l’unico atto d‘affetto verso sé stessi.
Ma è qui che la “grande cornice” riprende nuovamente il sopravvento sui personaggi.
“Tor, tor, tor” (goal, goal, goal) grida dall’alto il leggendario radiocronista Herbert Zimmermann. “Tor, tor, tor” ripeterono milioni di tedeschi quando, inaspettatamente, nel 1954 la Germania vinse i mondiali di calcio.
Al dolore della fine, al dolore della morte si sovrappone così lo “scherzo” della Storia, e la gioia spiazzante di un popolo che, con il “Miracolo di Berna“, ritornò a sentirsi una nazione.
Die Ehe der Maria Braun
dal film di Rainer Werner Fassbinder
sceneggiatura di Peter Märthesheimer e Pea Fröhlich
regia Thomas Ostermeier
con Ursina Lardi, Thomas Bading, Robert Beyer, Moritz Gottwald, Sebastian Schwarz
drammaturgia Julia Lochte, Florian Borchmeyer
scene Nina Wetzel
musiche Nils Ostendorf
video Sébastien Duponey
costumi Ulrike Gutbrod, Nina Wetzel
durata: 120′
applausi: 3‘ 15‘‘
Visto a Venezia, Teatro Goldoni, il 31 luglio 2015
Prima nazionale